martedì, ottobre 30, 2012
Intervista al magistrato Nicola Gratteri, che spiega perché la ‘ndrangheta non è più solo un problema dei calabresi ma un vero e proprio ostacolo per la crescita del Paese

di Paola Bisconti

Nicola Gratteri è Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria. Nato nella Locride, è uno dei magistrati più conosciuti nella Dda, Direzione Distrettuale Antimafia. Il suo notevole impegno contro la ‘ndrangheta lo costringe a vivere sotto scorta dal 1989. Nel 2005, infatti, fu lui stesso a scoprire un arsenale di armi e bombe nascoste nella piana di Gioia Tauro che sarebbe servito per un attentato contro di lui. Oltre ad aver ricevuto dei riconoscimenti per la sua spiccata attività contro la criminalità organizzata, è molto attento a diffondere una cultura della legalità: i suoi libri, scritti insieme ad Antonio Nicaso (clicca qui per la sua intervista di Lpl), sono la testimonianza di un uomo che lotta per il bene del proprio Paese.

D – Buongiorno procuratore. Chi intraprende la “carriera mafiosa” lo fa per scelta o perché è in qualche modo costretto a farlo?
R - Spesso sono scelte consapevoli, anche se nella ‘ndrangheta i legami di sangue incidono moltissimo.

D - Lei ha definito “vedove bianche” le compagne dei mafiosi, affidando al colore che rappresenta la purezza il ruolo delle donne nel mondo della criminalità organizzata. Questa definizione deriva anche dal silenzio delle donne, che è una forma di consenso verso i mariti, o esse sono solo delle vittime?
R - Le donne di ‘ndrangheta sono vittime e complici. Hanno un ruolo importante nella trasmissione dei valori mafiosi e nel mantenimento della reputazione familiare. Spesso sono oggetto di politica matrimoniale e nella storia della ‘ndrangheta tante faide si sono concluse con un matrimonio o sono state scatenate da matrimonio combinato per rafforzare alcuni casati a danno di altri. Quando parlo di vedove bianche, mi riferisco alle giovani donne di mafiosi finiti in galera e mantenute dai familiari; chiuse in casa come se fossero anch’esse prigioniere. Per sopravvivere alla depressione, molte di queste giovani donne fanno uso di psicofarmaci.

D - I boss vivono come topi in trappola, nascosti nei bunker, con la paura costante di essere uccisi; ma allora cosa spinge i ragazzi ad ambire a questo ruolo? Forse vedono il fascino della vita attraverso il rischio della morte?
R - Forse hanno un’idea della mafia troppo edulcorata, influenzata da film che hanno mitizzato il ruolo della mafia e dei mafiosi. I mafiosi sono dei parassiti che vivono sulle spalle di chi non ha il coraggio di ribellarsi e di chi sfrutta la mafia per restare al potere.

D - Secondo lei il popolo calabrese è abbastanza forte da riuscire prima o poi a vincere la ‘ndrangheta?
R - La ‘ndrangheta non è più un problema solo dei calabresi. Si è diffusa come una metastasi perché in passato è stata pericolosamente sottovalutata. È l’intero Paese che deve ribellarsi, comprendendo che per combattere le mafie, bisogna debellare anche la corruzione politica.

D - Quale messaggio intende lanciare con la pubblicazione dell’ultimo libro “Dire e non dire”, scritto insieme ad Antonio Nicaso, dove racconta dei cambiamenti della ‘ndrangheta nel corso degli anni, da quando faceva solo i sequestri di persona ad oggi che rappresenta una vera e propria minaccia mondiale?
R - La ‘ndrangheta è un prodotto della modernità. Nicaso sostiene da tempo che la ‘ndrangheta è una patologia del potere. Ne sono convinto anch’io. Entrambi riteniamo che la ‘ndrangheta deve essere vista come un ostacolo per la crescita del Paese, un fattore incompatibile con lo sviluppo. Se non combattiamo seriamente le mafie e la corruzione politica, faremo fatica a diventare credibili agli occhi del mondo. Di mafie in Italia si parla di almeno 150 anni.

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