venerdì, giugno 29, 2012
I centri sono nati per accogliere i numerosi stranieri che approdavano sulle nostre coste ma si sono rivelati dei lager di stato, delle prigioni dove si perpetuano torture e inaccettabili violenze

di Paola Bisconti

In principio fu il Cpt “Regina Pacis” di San Foca, a Marina di Melendugno in provincia di Lecce, ad accendere i riflettori sul trattamento inadeguato rivolto agli ospiti del centro di permanenza temporanea. I fatti di cronaca avvenuti nello scorso decennio in seguito all’ondata di immigrazione illegale del popolo curdo hanno provocato diverse contestazioni verso la modalità scelta dal Governo per affrontare il problema. Gli esponenti politici che avevano decantato l’ammirevole lavoro svolto dalla direzione della struttura nonché dai rappresentanti della curia di Lecce (il vescovo Cosmo Francesco Ruppi e don Cesare Lodeserto) erano perfettamente a conoscenza delle violenze perpetrate nei confronti di uomini e donne che erano sopravvissuti al “viaggio della salvezza” ma che poi, una volta approdati, hanno trovato l’inferno.

I lager di stato sono sempre esistiti e il tempo ne ha variato solo la denominazione a seconda degli eventi che la storia ha riservato per ogni nazione. L’Italia ha gestito il problema con l’emanazione di decreti ingiusti: la legge 189 del 30 luglio 2002 voluta da Bossi, Fini e Mantovano è in evidente disappunto con gli articoli 2 e 3 che garantiscono la tutela dei diritti dell’uomo e della solidarietà politica così come con l’art. 13 che sancisce l’inviolabilità della libertà personale, l’art. 16 che prevede il diritto di soggiorno, l’art. 24 sulla difesa e l’art. 32 che favorisce il diritto alla salute e quindi alle cure medico-sanitarie. Questa legge ha rinominato i “Cpt” introdotti con il decreto emanato nel 1998 da Turco e Napolitano in “Cie”, Centri di identificazione ed espulsione. Qui giornalisti, avvocati, psicologi e medici non possono accedere, come “impone” la circolare n°1305 del 1° aprile del 2011 firmata dal leghista Maroni, che ha dichiarato come la loro presenza potrebbe intralciare il lavoro di sostegno svolto all’interno delle strutture.

Ed è così che il cittadino consapevole inizia a porsi un grande interrogativo: in Italia esiste un “razzismo istituzionale”? La risposta si rivela affermativa. Molti dubbi, infatti, si risolvono con l’evidenza dei fatti, quelli raccontati dalle testate più coraggiose e anche da alcuni libri come “Razzisti per legge. L’Italia che discrimina” di Clelia Bartoli, che spiega in modo approfondito com’è nato un iter legislativo che avrebbe dovuto affrontare il problema dell’immigrazione illegale ma che ha invece messo in atto una strategia basata sulla negazione dei diritti fondamentali dello straniero, consacrando una logica di disuguaglianza sociale. Basta pensare all’aberrante proposta di Casini di sparare agli scafisti… come se fosse davvero l’unica soluzione per fermare il traffico di esseri umani.

Fino ad ora però l’unico vero traffico che nessuno ha frenato è stato quello del denaro fatto circolare per la costruzione o ristrutturazione delle strutture e il loro mantenimento, nonché la retribuzione delle cooperative che si occupano della gestione dei servizi. Il giro d’affari intorno ai Cie fa gola a tutti, soprattutto in quelle città economicamente più svantaggiate dove i centri sono delle vere e proprie fabbriche di lavoro. Aggiudicarsi un appalto da cifre milionarie, infatti, è una grande “fortuna”; tuttavia il funzionamento delle strutture che appare articolato in modo ordinato e dettagliato presenta delle discrepanze esorbitanti: è prevista l’assistenza sanitaria ma non è ammesso l’accesso ai medici, così come è garantito il supporto psicologico e invece gli ospiti sono imbottiti con gli psicofarmaci e gli ansiolitici; la mediazione linguistico-culturale è praticamente inesistente, in quanto nessuno ascolta le richieste degli stranieri che subiscono anche le conseguenze di un cattivo servizio di ristorazione e di pulizia, date le condizioni di degrado dei bagni e delle camere; molti testimoni hanno dichiarato che sono stati costretti a mangiare la carne di maiale nonostante la propria religione non lo consenta e che tale somministrazione era una sorta di ricatto o di punizione.

Quali sono le colpe di un popolo che tenta di scappare da uno stato in guerra e riceve maltrattamenti e violenze? Ad allarmare ancora di più è la diffusione del problema, dato che ogni struttura è coinvolta perché scenario di ingiustizie. A confermarlo c’è il rapporto “Le sbarre più alte” realizzato da “Medici per i diritti umani”, ong impegnata nella difesa dei più deboli, dove sono state messe in risalto le condizioni disumane nelle quali sono costretti a vivere gli ospiti di tutti i centri presenti in Italia. L’intero territorio nazionale, infatti, è disseminato da questi “lager”: se ne contano 13 e si trovano nell’area aereo-portuale di Bari; in località Restinco a Brindisi; a Lamezia Terme in provincia di Crotone; a Sant’Anna vicino Crotone; Trapani è l’unica città ad averne due che si trovano in località Milo e a Serraino Vulpitta; sempre in Sicilia se ne incontra un altro in Contrada Pian del Lago a Caltanissetta. Nel settentrione altri centri sono operativi come quello di Gradisca d’Isonzo a Gorizia, in via Corelli a Milano; in località sant’Anna a Modena; nella caserma Chiarini a Bologna; infine quello della capitale di Ponte Galeria. Quest’ultimo oltre ad essere il più grande ha adottato delle pesanti misure restrittive nei confronti degli ospiti: in primis l’architettura stessa dell’edificio rispecchia il modello di “panopticom”, il carcere ideale che mira ad ottenere il controllo mentale sui “detenuti”, inoltre sulle sbarre alte 6/7 metri sono stati impiantati dei pannelli lisci e delle telecamere di sorveglianza; un’altra assurdità di questo centro è l’internamento di ben 820 romeni, cioè di europei che per soggiornare in Italia non hanno bisogno di un permesso di soggiorno.

Fra i 500.000 ospiti delle strutture l’80% è composto anche da detenuti: la scelta di far alloggiare i delinquenti insieme a padri di famiglia ed onesti lavoratori ai quali non è stato rinnovato il permesso di soggiorno è un’altra delle azioni inaccettabili volute dallo Stato per riempire i centri facendoli apparire indispensabili per la sicurezza della nazione. In realtà il sistema acuisce il senso di ribellione degli immigrati che reagiscono con tentativi di sommosse, atti di autolesionismo, e invece vorrebbero solo avere una possibilità per vivere lontano dalla guerra e in pace con lo Stato che li ospita. Inoltre il vero obiettivo della legge non è quello di identificare ma solo di espellere: i 18 mesi di internamento sono abbondantemente sufficienti per identificare lo straniero, come prevede l’articolo 15 del Testo Unico sull’Immigrazione, che sancisce che il riconoscimento deve avvenire contestualmente alla reclusione. Questa azione non è stata mai messa in atto, anzi è stato aumentato il tempo di reclusione: all’inizio erano previsti solo 60 giorni, diventati poi 6 mesi e ora 18, che è il tempo massimo permesso dalle direttive europee ma da attuare solo in casi eccezionali… in Italia invece è diventata la regola.

In un’inchiesta di “Repubblica” i Cie sono stati definiti le “Guantanamo italiane” dove sono rinchiuse persone innocenti in nome di una legge razziale che come ha dichiarato don Luigi Ciotti è “forte con i deboli e debole con i forti”. Lo dimostra l’inchiesta aperta riguardo i fatti clamorosi del Cpt “Regina Pacis” di San Foca, indagini avviate grazie anche al documentario “Mare Nostrum” realizzato da Stefano Mencherini, giornalista indipendente. Don Cesare Lodeserto che prima degli scandali fu candidato persino al premio Nobel per l’accoglienza è stato condannato a 2 anni e 8 mesi di carcere tuttavia il prete salentino non ha mai scontato la pena e ora si trova in missione in Moldavia. Ecco un altro esempio di ingiustizia!

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