Ad oltre un mese dalla morte, a causa di un incendio, di quattro fratellini rom che vivevano in un campo nomadi della capitale, mentre un altro piccolo era morto ad agosto, si è tenuta giovedì scorso una seduta straordinaria dell’amministrazione capitolina, per decidere i prossimi passi di attuazione del piano nomadi di Roma.
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adio Vaticana - Anche il cardinale vicario Agostino Vallini, nei giorni scorsi, ha incontrato le associazioni che in diocesi lavorano accanto a queste persone: sette, ottomila in tutto. Tante erano state le promesse fatte alla comunità dei rom, all’indomani di quelle tragedia. Ma che cosa si sta facendo ora in concreto, per dare una risposta positiva alle loro necessità? Adriana Masotti lo ha chiesto a mons. Enrico Feroci, direttore della Caritas romana: ascolta
R. – Piccoli passi sono stati realizzati: è arrivato proprio poco fa un messaggio per dire che uno dei campi nati spontaneamente è stato chiuso e le persone sono state portate in Via Salaria. Credo però che il problema dei rom debba essere affrontato con una prospettiva a lunga scadenza. Non possiamo intervenire solamente tamponando le situazioni. Certo le situazioni che abbiamo attorno a Roma sono di enorme ed estremo disagio, ma se non si ha però una progettualità a lunga scadenza, forse, noi non riusciremo mai a risolvere questo problema, avendo la coscienza che questo gruppo umano è molto complesso e vario.
D. – Che cosa allora prevede il piano che il Comune di Roma ha a lungo studiato ed elaborato?
R. – L’altro giorno c’è stato un consiglio comunale speciale. Il sindaco ha detto che abbiamo sette campi autorizzati, undici tollerati e 90 mini campi abusivi. Il totale è sulle settemila, ottomila persone. La logica è, dunque, quella di costruire campi attrezzati, che possano forse rappresentare una prima risposta immediata. Non vorrei però che, accettando i campi attrezzati, si accetti la logica dei campi per avvalorare l’idea che i rom siano persone pericolose e quindi debbano essere messe in certi ambienti per tutelare la sicurezza della nostra città. Questa è la logica che dobbiamo cercare di far superare. Bisogna offrire una reale accoglienza, non una segregazione o emarginazione.
D. – Quale potrebbe essere la proposta diversa, l’ottica diversa nell’accoglienza dei nomadi...
R. – Io credo che ci debba essere innanzitutto un’accoglienza del territorio, innanzitutto la comunità cristiana: un intervento presso tutte le comunità parrocchiali, per sensibilizzare, per informare, per superare l’indifferenza, la diffidenza. Poi è necessario cercare di portare queste persone verso una ricerca di lavoro, di integrazione con la società. Sono settemila, ottomila persone su tre milioni. E’ possibile che questa società non abbia la capacità di dare un percorso per risolvere i problemi di questo gruppo? Per esempio, costruire un villaggio interculturale. Io l’ho visto in una parrocchia di Roma: ci sono famiglie rom, famiglie di immigrati e ci sono famiglie italiane in case fatte in legno, dove poi ogni famiglia ha un tutor che li accompagna, avendo bisogno di essere accompagnate. E’ mai possibile che non si possano trovare delle persone che accompagnino i ragazzi nella crescita culturale? I docenti non potrebbero essere preparati, almeno avere un’esperienza della cultura rom? Queste sono le riflessioni che dovremmo fare noi comunità cristiana e anche noi comunità civile.
D. – Queste riflessioni voi riuscite a dirle anche all’amministrazione, a chi poi deve decidere?
R. – Sì, vorrei sottolineare anche la sensibilità del cardinale vicario, che ci diceva: “Noi dobbiamo intervenire!” E ha già individuato un gruppo di persone all’interno dell’attività pastorale. Poi noi dobbiamo cercare lavoro per queste persone con le cooperative. Se noi riuscissimo a trovare anche una soluzione abitativa... Quindi, ci stiamo sforzando per dare una risposta. Lei mi ha chiesto se ho esposto queste mie idee e sì ne ho parlato con il sindaco. Mi sembrava che acconsentisse a queste proposte. E’ necessario poi dopo arrivare ad una concretizzazione delle idee nei fatti e questo mi auguro e spero possa avvenire in futuro.(ap)
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adio Vaticana - Anche il cardinale vicario Agostino Vallini, nei giorni scorsi, ha incontrato le associazioni che in diocesi lavorano accanto a queste persone: sette, ottomila in tutto. Tante erano state le promesse fatte alla comunità dei rom, all’indomani di quelle tragedia. Ma che cosa si sta facendo ora in concreto, per dare una risposta positiva alle loro necessità? Adriana Masotti lo ha chiesto a mons. Enrico Feroci, direttore della Caritas romana: ascoltaR. – Piccoli passi sono stati realizzati: è arrivato proprio poco fa un messaggio per dire che uno dei campi nati spontaneamente è stato chiuso e le persone sono state portate in Via Salaria. Credo però che il problema dei rom debba essere affrontato con una prospettiva a lunga scadenza. Non possiamo intervenire solamente tamponando le situazioni. Certo le situazioni che abbiamo attorno a Roma sono di enorme ed estremo disagio, ma se non si ha però una progettualità a lunga scadenza, forse, noi non riusciremo mai a risolvere questo problema, avendo la coscienza che questo gruppo umano è molto complesso e vario.
D. – Che cosa allora prevede il piano che il Comune di Roma ha a lungo studiato ed elaborato?
R. – L’altro giorno c’è stato un consiglio comunale speciale. Il sindaco ha detto che abbiamo sette campi autorizzati, undici tollerati e 90 mini campi abusivi. Il totale è sulle settemila, ottomila persone. La logica è, dunque, quella di costruire campi attrezzati, che possano forse rappresentare una prima risposta immediata. Non vorrei però che, accettando i campi attrezzati, si accetti la logica dei campi per avvalorare l’idea che i rom siano persone pericolose e quindi debbano essere messe in certi ambienti per tutelare la sicurezza della nostra città. Questa è la logica che dobbiamo cercare di far superare. Bisogna offrire una reale accoglienza, non una segregazione o emarginazione.
D. – Quale potrebbe essere la proposta diversa, l’ottica diversa nell’accoglienza dei nomadi...
R. – Io credo che ci debba essere innanzitutto un’accoglienza del territorio, innanzitutto la comunità cristiana: un intervento presso tutte le comunità parrocchiali, per sensibilizzare, per informare, per superare l’indifferenza, la diffidenza. Poi è necessario cercare di portare queste persone verso una ricerca di lavoro, di integrazione con la società. Sono settemila, ottomila persone su tre milioni. E’ possibile che questa società non abbia la capacità di dare un percorso per risolvere i problemi di questo gruppo? Per esempio, costruire un villaggio interculturale. Io l’ho visto in una parrocchia di Roma: ci sono famiglie rom, famiglie di immigrati e ci sono famiglie italiane in case fatte in legno, dove poi ogni famiglia ha un tutor che li accompagna, avendo bisogno di essere accompagnate. E’ mai possibile che non si possano trovare delle persone che accompagnino i ragazzi nella crescita culturale? I docenti non potrebbero essere preparati, almeno avere un’esperienza della cultura rom? Queste sono le riflessioni che dovremmo fare noi comunità cristiana e anche noi comunità civile.
D. – Queste riflessioni voi riuscite a dirle anche all’amministrazione, a chi poi deve decidere?
R. – Sì, vorrei sottolineare anche la sensibilità del cardinale vicario, che ci diceva: “Noi dobbiamo intervenire!” E ha già individuato un gruppo di persone all’interno dell’attività pastorale. Poi noi dobbiamo cercare lavoro per queste persone con le cooperative. Se noi riuscissimo a trovare anche una soluzione abitativa... Quindi, ci stiamo sforzando per dare una risposta. Lei mi ha chiesto se ho esposto queste mie idee e sì ne ho parlato con il sindaco. Mi sembrava che acconsentisse a queste proposte. E’ necessario poi dopo arrivare ad una concretizzazione delle idee nei fatti e questo mi auguro e spero possa avvenire in futuro.(ap)
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