venerdì, marzo 25, 2011
di Luisa Deponti del CSERPE (Centro Studi E Ricerche Per l'Emigrazione)

Sullo sfondo delle grandi trasformazioni e sfide che la chiesa in Europa sta attualmente vivendo, le migrazioni assumono un'importanza crescente, non solo come fenomeno sociale che interpella i cristiani nel loro impegno come cittadini, ma anche come segno dei tempi e fattore di cambiamento all'interno della stessa comunità ecclesiale. Di tale questione si è occupato il convegno annuale "Pastorale dei migranti nelle grandi città europee", che si è tenuto a Milano dal 13 al 16 marzo. Quest'anno si sono riuniti rappresentanti diocesani e operatori pastorali di Barcellona, Basilea, Bruxelles, Colonia, Lione, Milano, Torino e Vienna, nonché il Direttore nazionale dell'Ufficio Migratio della Conferenza dei Vescovi svizzeri, Marco Schmid. Tema dell'incontro era: "Camminare insieme nella diversità. Quale 'parrocchia' vogliamo essere?".

Oggi parlare di 'parrocchia' non è più scontato, soprattutto in alcuni paesi europei dove tale modello pastorale, che caratterizza da secoli l'organizzazione della chiesa sul territorio, viene messo in discussione. La prima parte del convegno, dedicata alle relazioni preparate dai rappresentanti delle varie città, ha messo in luce una varietà di situazioni. Nelle grandi metropoli del nord e centro Europa il declino della pratica religiosa tra le popolazioni autoctone e la crisi delle vocazioni sacerdotali hanno già messo seriamente in crisi la possibilità di mantenere quello che il teologo pastorale, Don Luca Bressan, intervenuto al convegno, ha definito come "reticolo parrocchiale", cioè la capillare presenza della chiesa con le sue strutture pastorali. In questi contesti i cattolici immigrati rappresentano una parte cospicua, se non la maggioranza, di coloro che frequentano le celebrazioni domenicali e le varie attività parrocchiali. In altri paesi come Spagna e Italia tali processi sono presenti, ma avvengono in modo più lento.
In ogni caso, sta maturando almeno tra i responsabili della pastorale migratoria la consapevolezza che il fedele immigrato non può più essere visto esclusivamente come un soggetto da assistere nei suoi bisogni materiali e religiosi. In questo ambito le chiese locali sono sempre state molto attive nei vari paesi europei. È venuto, invece, il momento dell'incontro, della trasformazione reciproca, della condivisione della fede, ma anche delle strutture, delle risorse finanziarie e delle responsabilità decisionali all'interno delle comunità, tra i fedeli locali ed immigrati.

Qui si apre un vasto ambito di impegno a più livelli. In primo luogo ci si è resi conto che è ancora insufficiente nella riflessione teologico-pastorale sui mutamenti della parrocchia in Europa l'attenzione alla "variabile" immigrazione. Don Bressan ha parlato di passaggio da cristianesimo di tradizione a cristianesimo di conversione, non più basato su una chiesa di popolo, ma su comunità formate da persone motivate che vivono la fede come scelta personale. In questa nuova realtà dimostrano un'accentuata vitalità le chiese libere, pentecostali e carismatiche di esportazione statunitense. La parrocchia non sparirà, ma cambierà per continuare ad essere uno spazio di vita cristiana in cui tutti coloro che la abitano o solo la attraversano possano fare l'esperienza di conoscere il Dio di Gesù Cristo. Ma in questo processo di mutamento quale ruolo possono rivestire le comunità cristiane di lingua straniera che nascono con l'arrivo di immigrati cristiani? Quali forme di evangelizzazione tra i figli degli immigrati, che presentano identità culturali miste? Non sembra che i teologi e coloro che stanno elaborando progetti pastorali nuovi per le diocesi europee abbiano già considerato approfonditamente questo tema.

A questo proposito tre relatori hanno illustrato durante il convegno i diversi tipi di religiosità e di strutture pastorali della chiesa cattolica in Africa, America Latina e in Cina, mettendo in evidenza che l'immigrazione in Europa dei fedeli di questi continenti porta inevitabilmente alla convivenza su uno stesso territorio di "cristianesimi" e "cattolicesimi" differenti sotto vari punti di vista: concezioni teologiche, tradizioni, liturgia, catechesi, modi di esprimere la fede. Un'esperienza storicamente già vissuta, di fatto, con l'arrivo di italiani, spagnoli, croati e polacchi in paesi come la Svizzera e la Germania, ma da cui forse non si è tratto sufficiente insegnamento, fermandosi solo al dibattito sul parallelismo tra parrocchie locali e missioni cattoliche.

Accanto a questo si pone la questione della formazione dei sacerdoti, degli operatori pastorali e dei fedeli stessi all'apertura nei confronti dell'altro, di chi è diverso. Le migrazioni stanno cambiando radicalmente le nostre società: ciò genera tensioni e paure, che per il momento sono utilizzate abilmente soprattutto da partiti e movimenti xenofobi. La chiesa dovrebbe assumersi l'impegnativa sfida dell'educazione alla convivenza tra le diversità, arrivando certamente ad essere segno profetico per la società, ma partendo in primo luogo dalle sue comunità, parrocchie e unità pastorali e attingendo ai contenuti biblici e teologici della tradizione cristiana.
Questioni così complesse superano ovviamente le possibilità di un convegno, per questo i partecipanti hanno formulato l'intenzione di affrontare l'anno prossimo il tema del rapporto tra contesto europeo secolarizzato, religiosità degli immigrati e diffusione di nuove chiese e movimenti religiosi.

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