lunedì, marzo 08, 2010
Pubblichiamo l'ultima omelia che ci ha inviato Padre Piotr Anzulewicz, nostro stimato collaboratore. Al termine di essa, egli fa un cenno alla sua partenza dalla parrocchia di San Francesco di Pisa e al suo arrivo in quella del Sacro Cuore, a Catanzaro Lido. (III domenica di Quaresima)

di P. Piotr Anzulewic, OFM Conv.

Questo è il tempo dell'essenzialità: quaranta giorni ogni anno per seguire da vicino Gesù nel suo e nostro bisogno di silenzio e preghiera, di verità e di scelta. Vogliamo guardarci dentro per scoprire se la nostra fede in Dio è la stessa di Gesù. La Quaresima è un tempo speciale che ci sospinge verso la conversione, meta interiore mai raggiunta una volta per sempre, in continua evoluzione per abbandonare l'idea distorta di Dio ed abbracciare il volto luminoso del Dio di Gesù. Qualche volta ci chiediamo: «Cosa ho fatto di male per meritarmi questo?», oppure esclamiamo: «Che croce mi ha mandato Dio!» Quante volte sentiamo questi lamenti e queste quasi imprecazioni verso Dio. La sofferenza è un tema delicato e faticoso e tutti entriamo in crisi quando essa ci colpisce. Vorremmo delle risposte, ma Dio tace e la Bibbia sembra non aiutarci molto.

La pagina del Vangelo di oggi (Lc 13,1-9) è straordinaria e ci indica un faticoso percorso di riflessione. Gesù commenta due gravi episodi di cronaca e contrasta subito una credenza popolare molto diffusa allora. Si pensava che le disgrazie, come il crollo della torre di Sìloe, la malattia o l'handicap punissero delle persone che avevano commesso degli orribili peccati. Non vi era pietà per i malati e i disgraziati e nessuna comprensione per le vittime delle repressioni. Ciò che Gesù dice è sorprendente, sconcertante, stupefacente: la vita ha una sua libertà. La causa del crollo della torre di Sìloe è da imputarsi al calcolo sbagliato delle strutture, o all'impresa di costruzione che ha usato, in modo criminale, materiali scadenti; ed anche l'intervento crudele dei romani non è la vendetta di Dio per un popolo infedele e peccatore, ma risponde alla logica dell'impero romano che usa la violenza come strumento di oppressione e di controllo.

Dio ci lascia liberi, perché vuole dei figli, non dei sudditi o schiavi. E Gesù ci fa comprendere che noi, suoi discepoli, siamo chiamati a leggere gli eventi disastrosi come un monito che la vita, non Dio, ci fa, poiché sotto la torre crollata avremmo potuto esserci noi.

Viviamo questi giorni quaresimali come pungolo interiore per la nostra conversione, autentica, profonda. Non aspettiamo e non temporeggiamo. Oggi il Signore Gesù passa e ci salva. Sì, siamo chiamati ad usare bene la nostra libertà, a vivere la vita con intensità e passione, a vedere il grande prodigio del roveto ardente, come Mosè, e scorgere in esso il volto di un Dio che conosce il nostro nome e la nostra condizione, pazienta come il contadino che non taglia il suo albero di fichi infruttuoso, ma lo cura e pazienta, perché riprenda a produrre frutti.

A Mosé che tentenna nell'andare a parlare al popolo, Dio racconta di sé, dice il suo nome e si svela come Colui che conosce le nostre sofferenze (Es 3,6.14-15). Se anche la nostra vita attraversa momenti di fatica, siamo certi che egli non è lontano: interviene, ma rispetta le nostre scelte, anche se disastrose e limitanti. Non guarda indifferente alle tragedie del mondo, ma chiede a noi, come a Mosé, di renderlo presente accanto a chi soffre. Siamo noi il balsamo che egli dona all'umanità per cercare di lenire ogni dolore e crescere nella giustizia e nel perdono.

La conversione, il cambiare atteggiamento, il ri-orientare la nostra vita è il frutto che ci è chiesto. Fermiamoci, trepidi e accorati, davanti agli eventi tristi della vita, ma senza incolparne Dio, né scuotere la testa. Crediamo che Dio ci ama teneramente e riconosciamo nella sofferenza e nelle contrarietà il monito che la vita stessa ci rivolge per vivere autenticamente, da figli di Dio. Non smettiamo di lodare il Signore Gesù e cantare il «Magnificat» di Maria, sua tenera Madre. Tutto è dono: lo splendore del mondo sensibile, la gioia e la felicità del mondo interiore. Sì, dono sono anche le sofferenze, perché se vissute con mitezza e umiltà (come diceva di sé Gesù) portano alla salvezza/pienezza/completezza.

Gesù aspetta che il nostro cuore si apra all'amore. Attorno ad esso “gira” tutta la vita. L'amore è la più divina di tutte le realtà umane: è dono e illuminazione, rapimento e fascino, mistero ed arcano; non è razionale, ma nemmeno irrazionale. L'amore è il fenomeno fondamentale della vita umana, il suo destino e la sua pienezza. Nell’amore – in particolare nella sua espressione più alta, più bella e più sublime quale è il radicale dono di sé – l’uomo ritrova se stesso e, costantemente superando il proprio «io», “realizza” se stesso e lo diventa sempre più quanto più è per gli altri. Non dando se stesso agli altri non agisce secondo la sua natura, mente al suo essere e danneggia se stesso. La più grande ingiustizia che l'essere umano può fare a se stesso è la mancanza di amore per gli altri. La più grande giustizia invece è l’innalzamento degli altri, restituendoli all’amore.

Per questo l’amore, puro, giusto e saggio, è il dono più bello che - sulle vie della vita - può diventare parte di noi, fino a colmarci interamente, se riusciamo ad accoglierlo. L'amore è un dono di Dio, poiché lui ne è la fonte, l'origine. Sì, ogni amore è «di Dio». L’amore divino si è rivelato in Gesù, nella sua incarnazione, e continuamente si rivela nell’Eucaristia, prolungamento dell’incarnazione e manifestazione della sua risurrezione. Gesù è epifania di Dio che «è» (Es 3, 14) ed «è amore» (1 Gv 4, 8.16): ecco la chiave cristiana al mistero e alla pienezza di vita. Grazie a Gesù, al suo farsi uomo, sappiamo che Dio, trino e uno, è amore-dono-relazione.

«Soltanto la fede in Dio che è in se stesso amore – scrive G. GERSHAKE (n. 1933), teologo tedesco – fa l’uomo comprensibile come creatura che dall’amore è destinato all’amore». Quel lembo del mistero umano l’ha svelato Gesù, Amore divino incarnato. Non stupisce che tra le più belle frasi evangeliche, che magnificamente corrispondono al nostro cuore e alle nostre labbra, vi sia la confessione di Pietro a Gesù: «Tu sai che ti amo» (Gv 21,17).

L’amore è anche un modo fondamentale di partecipazione ai valori umani. Esso agisce come grazia (gr. cháris – fascino e incanto, graziosità e attrattiva), generosità, benevolenza e gratitudine. Esso è desiderio di un amore ancora più grande. L’esperienza del peccato e del male addirittura lo approfondisce e lo fa maggiormente amore. L’amore ha riguardo per altri beni, li abbraccia e rischiara. L’amore «non è creato, né fatto, né generato – afferma il Maestro ECKHART († 1327/1328), mistico tedesco, filosofo e teologo. – Esso è generante e genera il buono e il buono, come tale non è creato, né fatto. Egli è il bambino generato e il figlio della bontà. La bontà genera nel buono se stessa e tutto ciò che essa è: travasa in lui l’essere e il sapere, l’amore e l’azione; egli, invece, interamente riceve il suo essere e il sapere, l’amore e l’azione dritto dal cuore, dal di dentro più profondo della bontà e soltanto da essa».

La condizione del “generare” è la “fecondazione”: l’“anima” dovrebbe farsi “fecondare”, “aprirsi” e “lasciarsi colmare”. In questa “fecondazione” si tratta dell’ “obbedienza” e della “scelta di sé”. Ovviamente, la “scelta di sé” è: «non mia, Signore, «sommo Bene» e «tutto Bene», «ogni Bene» e «pienezza del Bene», ma Tua libertà e volontà», diceva s. Francesco d'Assisi..

«Abbi piena confidenza in Lui e sii convinto – continua Eckhart – che Egli non permetterebbe il peccato (il male) se non avesse mirato, attraverso esso, di raggiungere un bene più grande. E se qualcuno si eleva completamente dai peccati e se ne allontana, allora Dio fedele si comporta come se un uomo non fosse mai caduto in esso e neppure per un momento intende castigarlo». Sì, «Dio, essendo Egli in se stesso la pienezza di luce, versa in ogni essere la luce e il calore della sua bontà (…). Tanta più luce vi è nell’uomo, tanto più egli assomiglia a Dio. La bontà divina si effonde come fasci di luce su tutti gli esseri» (K. MICHALSKI, La gnoseologie de Dante, Kraków 1950, 20-21).

Fissiamo lo sguardo su Gesù – Amore incarnato, povero e crocefisso – e sulla Madre sua, Maria, con gratitudine per tutto, in questo primo giorno della terza settimana di Quaresima, che è nello stesso tempo il terzo giorno del mio silenzioso commiato dai miei confratelli e amici di Pisa, con i quali ho tentato di essere amico, fratello e confidente, ed è il terzo giorno del mio arrivo qui, a Catanzaro Lido, tra voi, dove cercherò, con il caro p. Ilario, vostro parroco, e con fra Alessandro, sagrestano e confratello, di donare almeno qualcosa di me, insieme alla tenerezza di Dio, alla sua compassione e al suo amore immenso, infinito, eterno, fonte di ogni bene e di ogni gioia.

Terminiamo con una preghiera:

Padre dei Cieli e della Terra, conforta il nostro cammino con il tuo Pane divino, aiutaci a perdonare come tu perdoni, convertici e sostienici nel produrre frutti di bene e di amore, e toglici la stolta arroganza di giudicare le disgrazie come tue punizioni. Amen


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