domenica, giugno 14, 2009
Il termine indica i sostenitori di Mousavi, che per un pò sembrava potesse battere Ahmadinejad. Invece il presidente in carica vince di nuovo in Iran. Accuse di brogli.

PeaceReporter - Prima di partire per l'Iran, da cui manco da due anni, mi aspettavo sì di trovare fermento politico per le elezioni presidenziali- d'altra parte parliamo di un paese composto per il 70 percento da giovani al di sotto dei 25 anni, ma non di trovarmi nel bel mezzo di una vera e propria rivoluzione sociale, politica e culturale. Mentre scrivo dalla città di Yazd, culla della religione zoroastriana, i risultati delle elezioni sembrano confermare Mahmud Ahmadinejad presidente della Repubblica Islamica. Ma in questa apparente continuità politica si è verificata una cesura, rappresentata dal ritorno, dopo trenta anni di paura e repressione, del popolo come protagonista delle piazze, un ritorno allegro, creativo, prepotente.
E' difficile descrivere l'atmosfera che si respirava in queste ultime due settimane prima del voto. Basta dire che a quelli che hanno fatto la rivoluzione del 1979 sembrava di essere tornati indietro di 30 anni. Con una fondamentale differenza: questa volta non ci sono stati scontri, niente sangue versato come ci fu allora, nessuna celebrazione mortifera in nome di grandi ideali- ma una continua festa, il dibattito politico come leit motiv della quotidianità iraniana, una ri-appropriazione dello spazio pubblico e l'affermazione di un'estetica della giovinezza per le strade.

La riappropriazione dello spazio pubblico: l'agorà iraniana
Teheran è la città delle macchine, del caos, del traffico: una megalopoli di tredici milioni di abitanti, che spesso necessitano di un paio di ore per spostarsi da una zona all'altra. Ed è proprio guardando le macchine e il traffico, subito dopo essere atterrati, che si percepisce il fermento: ciascuna auto porta appiccicato sui finestrini il volto del candidato preferito. Per essere pro- Mussavi o diventare, come dicono qui, un mirhoseini basta anche aver dipinto l'auto con un segno verde, mentre per Ahmadinejad si esibisce la bandiera nazionale. Grandi assenti sulla scena sono gli altri due candidati Karroubi e Rezai.
La vita pubblica di Teheran è la strada con il suo traffico automobilistico, uno spazio di per sé ostile al dialogo, soprattutto a quello politico. Eppure in questi giorni la dimensione politica si è prepotentemente ri-appropriata di queste strade trasformandole incredibilmente da luoghi di passaggio e di congestione a luoghi di scambio, di azione politica, di contatto ..... Agli angoli delle strade giovani e giovanissimi e perfino bambini distribuiscono volantini e programmi dei candidati, lanciandoli dentro le macchine dai finestrini abbassati: per il brevissimo spazio di qualche secondo si scambiano commenti, insulti e battute, si fanno un cenno di intesa, si sorridono. Per alcuni ragazzi sembra l'occasione per rimorchiare. Si scambiano numeri di telefono, si stringono taciti accordi per il voto: si ha l'impressione di essere dinanzi a ad una nazione vera, che si percepisce come tale perché coinvolta all'unanimità in un grande evento, che sovrasta ciascun individuo.
Così a Isfahan, la città che ha la più grande e bella piazza del mondo musulmano (Meiydan Imam), si assiste ogni sera ad una sfilata interminabile di moto e macchine con fotografie e manifesti elettorali. In realtà assomiglia più ad una parata circense: i giovanissimi si esibiscono in acrobazie con la moto, in 5 o 6, in piedi, o con le teste che escono dalle decappottabili. I manifestanti sono per lo più completamente vestiti e colorati di verde, quindi tutti mirhoseini, ma non mancano i sostenitori di Ahmadinejad; clacson e musica accompagnano le parate e la gente che si riversa per le strade fino a notte fonda e che rappresenta la grande varietà dell'Iran, dalle chadorì (le donne più tradizionali coperte dal velo nero) alle modernissime ragazze con i nasi rifatti, dalle famiglie alle giovani coppie, dagli anziani che bevono il tè sugli scalini dei negozi, ai basiji, ai militari, tutti in qualche modo partecipano a questa festa nazionale, salutando, ridendo, o gridando il nome di Musavi o Ahmadinejad a gran voce.
Forse più che il 1979 iraniano caratterizzato da repressione e violenza, questi giorni richiamano persino un po' una festa religiosa che coinvolge indistintamente tutte le età, i generi e le classi sociali, con il prevalere dell'elemento ludico per le strade, e la creatività messa a disposizione dell'ideale di cambiamento.
Il fotografo iraniano Abbas scriveva alla fine degli anni Novanta che il popolo iraniano dopo la rivoluzione appariva dilaniato tra due sfere dell'esistenza: quella nascosta, che ogni iraniano conduceva all'interno delle proprie mura domestiche, l'anadaruni, e quella pubblica delle strade, il biruni. Il velo era uno degli emblemi di questa divisione, perché era obbligatorio per le strade, ma veniva tolto nel privato, per esempio nelle feste in casa. Credo che il paese descritto dieci anni fa da Abbas non sia più quello di oggi: i confini tra pubblico e privato, tra lecito e illecito, tra biruni e andaruni sono costantemente spostati, attraversati e reinventati dalle nuove generazioni: la strada non è più lo spazio di controllo da parte del governo sul popolo, ma dell'affermazione del sè. Così il dentro e il fuori diventano liquidi, intercambiabili, e questo è particolarmente evidente quando mi fermano per la strada perché sembro straniera, ma sentendo che parlo il farsi, mi chiedono "shoma reye be ki midi?" Per chi vota lei? Con una libertà e un candore che mai sarebbero stati possibili nell'ormai lontanissimo 1997, e con altrettanta libertà e candore io do la mia risposta: "man mirhoseini hastam"(sono una mirhoseini)


Il Dibattito politico come leit motiv della quotidianità iraniana
Al safreh khaneh (la casa del tè) di Tajrish, a Teheran ci sono numerosi gruppi di giovani che fumano il narghilè e prendono il tè parlando di politica. La cosa che mi sorprende di più è l'impossibilità nel catalogare in classi sociali i sostenitori di uno o dell'altro candidato. Si tende a pensare che i mirhoseini siano studenti e borghesi di Teheran, mentre i sostenitori di Ahmadinejad siano i ceti più popolari, più tradizionalisti. Sarà un dato di fatto, ma le persone reali che incontro, i giovani, la gente, non sembra rientrare automaticamente in questa suddivisione. Uno studente di economia di 25 anni mi spiega perché dovrei votare per Ahmadinejad: " L'unico candidato davvero onesto, che ha speso i soldi del governo per distribuirli a chi ne aveva bisogno, e non per fare studiare all'estero i propri figli, come ha fatto Rafsanjani".
Accanto a lui un altro studente, che porta il bracciale verde di Musavi, contesta al presidente della repubblica islamica gli sbagli nella politica estera e continua dicendo che è un dururghi, un bugiardo. Non c'è tensione, ciascuno di loro elenca i punti forti del proprio favorito. Per scherzare, il mirhoseini chiama l'altro "fascist" fascista. L'altro ride, " vedremo" dice.
A Isfahan di sera per le strade si vede una folla gremita di persone. Sembra quasi che ci sia uno spettacolo per la strada, mi avvicino, ma non riesco a vedere nulla, finché gentilmente un gruppo di ragazzi si sposta, come vuole la tipica ospitalità persiana, per farmi passare avanti. Una giovane chadorì, avvolta nel suo chador nero e con in mano il ritratto di Mussavi è in piedi su una sedia. Sta facendo una sorta di comizio a favore del suo preferito. Gli altri stanno ad ascoltarla, nessuno la interrompe, aspettano che abbia finito lei per dire la loro. Poi qualcuno parla di Musavi come di uno "debole" in confronto al suo avversario e nasce un dibattito. La maggior parte delle cose che si dicono sono quelle che sento continuamente ovunque, sui taxi, nelle hall degli alberghi, al ristorante, durante le visite di cortesia agli amici. Sono gli stessi punti discussi anche nei dibattiti televisivi che hanno preceduto le elezioni, e in cui si fronteggiavano tutti i candidati contro tutti, senza risparmiare colpi.
L'arricchimento personale durante la carriera politica rimane un tema centrale di discussione, così come la situazione economica del paese. In generale poco si parla di questioni di genere e di politica estera o di diritti umani. Ci sono delle priorità, che sembrano legate soprattutto all'aspirazione generale ad un maggiore benessere economico. Più volte mi sono chiesta se era quello che muoveva tutte queste persone nello spazio pubblico. In realtà credo che la mobilitazione vada oltre a questo: si tratta forse più di un bisogno di far sentire la propria voce, di sovvertire lo status quo, di sentirsi uniti anche nella divisione di opinione, di costruirsi e rinnovarsi come nazione, di essere pubblicamente visibili, di essere semplicemente liberi.
I motivi che spingono a votare Musavi o Ahamdinejad sono divenuti un leit motiv della quotidianità. Così come spesso si ripetono alcune formule di augurio e speranza nella lingua persiana come inshallah (se dio vuole), be salamati (salute), zende beshe (che viva sempre),così si ripetono alcuni concetti politici appresi attraverso i comizi pubblici e soprattutto quelli televisivi in questi giorni. Non c'è luogo in cui non si faccia riferimento alle elezioni. Persino dalle alte mura che circondano una casa sento pronunciare, mentre sono di passaggio, il nome di Ahmadinejad, "che viva sempre".
Ora si parla di broglio elettorale, di un risultato falsato. Ma la delusione non sembra essere un sentimento unanimemente condiviso. C'era chi gioiva sta mattina, chi prendeva in giro i mirhoseini. Qualcuno mi ha chiesto se mi aspettavo un risultato del genere. In un certo senso me lo aspettavo, sì. Ma questo non toglie niente alla rivoluzione iraniana di questi giorni. Dopo aver varcato i confini di ciò che si può dire in pubblico, dopo aver violato i tabù politici creati dalla rivoluzione khomeinista del 1979, la Repubblica Islamica non sarà mai più la stessa, anche con lo stesso presidente di prima, che dovrà comunque fare i conti con una giovinezza che impone la sua estetica e il suo modo di vedere le cose, che impone, cioè, una svolta comunque.

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