...ovvero la quiete della riflessione dopo la tempesta della relazione
del nostro redattore Carlo Mafera
del nostro redattore Carlo Mafera
In una relazione tra due persone o due gruppi è bene che il dialogo e il silenzio siano ben dosati. Esiste un tempo per ogni azione che si compie. Così c’è un momento in cui bisogna dialogare e un momento in cui occorre ascoltare. Il dialogo a tutti i costi, in cui si vuole chiarire ogni cosa immediatamente, è del tutto negativo. Così come è negativo il dialogo compresso (rimosso) in cui si decide di attendere tempi migliori. Spesso tacere è una scelta opportuna per evitare di esasperare una sensibilità già compromessa e snervata dalla stanchezza o dal tema delicato, oggetto del contendere. A volte però il tacere può diventare insopportabile e pesante e può gridare e far rumore più delle parole. Occorrono perciò dei correttivi: chi tende a parlare troppo deve purificare questa smania di chiarire tutto puntigliosamente; ma anche chi ha la tendenza a evitare sempre le discussioni, a “lasciar perdere” non affrontando i temi essenziali in un dialogo significativo con persone significative, allora deve migliorare il suo atteggiamento nel senso di essere più partecipe, di dialogare e di intervenire più attivamente nella relazione. Bisogna poi distinguere due tipi di silenzio : uno negativo, espressione spesso di intolleranza, di violenza che si realizza con la resistenza passiva (così diceva mio padre per quest’ultima ipotesi) la peggiore violenza aggiungo io, manifestazione anche di chiusura di chi non vuole ascoltare le ragioni dell’altro, ignorandolo completamente per paura di rimettersi in discussione e disconoscendo così il suo stesso esistere, la sua dignità di persona e il suo ruolo di interlocutore.C’è però un silenzio positivo dove entrambi gli attori della comunicazione creano lo “spazio comunicativo” che l’uno offre all’altro per prendere la parola. Un silenzio indispensabile per recepire i contenuti, assimilarli e comprenderli. Un silenzio importante per stabilire i ritmi del dialogo, e funzionale alla creazione del pensiero stesso. Morale della favola : cerchiamo di essere più consapevoli di questi preziosi beni : la parola e il silenzio.
E passiamo allora alla buona comunicazione : una delle caratteristiche che deve possedere chi comunica professionalmente è per così dire “la maieutica” di socratica memoria, cioè la capacità di tirar fuori dall’interlocutore delle verità possedute solo potenzialmente facendogli allargare i propri orizzonti e i propri confini, indicandogli degli obiettivi più ampi. Il cammino dell’umanità e del singolo è purtroppo un cammino costellato di confini., spesso autoimpostoci dalle nostre paure e dalle nostre auto giustificazioni. Il principio animatore delle nostre azioni diventa spesso : “Mi devo difendere e salvare”. Ognuno si crea il proprio orticello invalicabile dove nessuno ha da esserci per infastidirmi. Chi sta dentro non deve rimettermi in discussione, non si deve permettere di farmi vedere i più ampi orizzonti dove spaziare. Se la comunicazione è una porta quindi, si può aprire ma purtroppo si può anche chiudere. Ma quella vera è una comunicazione che mi apre gli occhi e mi fa notare il mio egoismo.
Uno dei virus che impedisce l’apertura e la relazionalità è sicuramente la diffidenza. Questa purtroppo nasce da paure o da traumi subiti anche in età infantile. E’ difficile far superare questo trauma. L’unico modo per combattere questo virus della diffidenza e del sospetto, è far provare all’interlocutore “sofferente di questo male”, che c’è qualcuno che si avvicina a me con un gesto d’amore gratuito e infinito. Infatti chi è stato ferito da una cattiva comunicazione e da una cattiva relazione nei suoi anni precedenti, potrà sperimentare così una comunicazione autenticamente affettiva, quella stessa che proviamo quando ci mettiamo in relazione con la divinità che è nel più profondo di noi stessi.
Veniamo all’approfondimento delle modalità comunicative : per accrescere sempre più la nostra consapevolezza nella gestione della comunicazione bisogna conoscere i punti fondamentali. Il primo è costituito dalla “diversità dei modi di comunicare”. Occorre sempre riconoscere e cercare l’intreccio o lo scambio comunicativo più efficace ed armonico. Trovare insomma le stesse modalità comunicative. Il secondo punto sta nel giudizio nascosto. Infatti, nella comunicazione s’insinua il pregiudizio negativo o positivo che condiziona pesantemente il risultato della comunicazione stessa compromettendo la relazione stessa. Un altro principio animatore è quello della “impossibilità di non comunicare”. Bisogna essere sempre più consapevoli che si comunica con la parola e la presenza ma anche in modo non verbale, con il silenzio, con i gesti, con il “non esserci” (assenza). Poi, un altro punto è quello relativo alla creazione di circoli ripetitivi (le cosiddette “coazioni a ripetere”), dove prevale più che la spontaneità, il meccanicismo. Cioè, ad un dato comportamento di una parte corrisponde un automatico comportamento-risposta dell’altra parte comunicativa. In realtà, inconsciamente ognuno di noi si comporta come l’altro si attende che (io) faccia, secondo uno schema stereotipo (così recita il terzo a priori sociologico).
L’ultimo punto consiste nello “essere complementari”. E’ importante, secondo questo principio, acquisire la consapevolezza che nella comunicazione si assume sempre un ruolo che non sfugge mai alla tripartizione scientifica (del professor Berne) di A) Genitore; B) Adulto; C) Bambino. Soltanto in un incastro psicologicamente flessibile di questi tre ruoli, può scaturire una relazione costruttiva, ricercando per l’appunto ruoli sempre diversi e correttamente intercambiabili secondo le esigenze e l’opportunità del momento. Così facendo si sta attenti ad orientare se stessi e gli altri per raggiungere la reciprocità e rifiutare la competizione aggressiva che talvolta l’interlocutore inconsapevole, e ricco di pregiudizi e malintesi rimossi, vuole innescare.
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