giovedì, ottobre 20, 2016
Non è facile parlare di Dio e ancor più difficile è scrivere di Lui; ma quando a farlo è la penna di Rainer Maria Rilke, tutto sembra più semplice. 

recensione di Monica Cardarelli

“Storie del buon Dio”, edito da Edizioni Paoline, fu scritto alla fine del 1899 e rappresenta un piccolo gioiello di letteratura. Con estrema leggerezza e altrettanta profondità, Rilke accompagna il lettore in un percorso piacevole, ironico e intenso attraverso racconti che lui stesso narra ad alcuni suoi amici e vicini di casa, affinché raccontino le storie sul buon Dio ai bambini. Un modo simpatico per parlare agli adulti e farli riflettere anche sull’insegnamento ai più piccoli, per creare una relazione tra generazioni in cui non sono i grandi però ad insegnare ai bambini ma l’arricchimento è reciproco.  I bambini infatti colgono subito con semplicità alcuni aspetti del racconto che agli adulti non sono comprensibili perché non spiegabili razionalmente. Su questo assioma gioca Rilke che con il suo stile tutto personale, poetico e diretto, semplice e riflessivo, propone tredici storie che parlano di Dio .

“Gli adulti diventano sempre più stupidi….i grandi si levano il cappello quando si incontrano, ma quando vedono una testa calva si mettono a ridere. E ridono spesso. Se non fossimo noi tanto saggi da piangere di tanto in tanto, non ci sarebbe equilibrio neppure in questo.” spiega Hans, il bambino protagonista del racconto “Come un ditale finì col diventare il buon Dio”. Nella sua semplicità prosegue: “Ora, il buon Dio è assolutamente indispensabile. (…) Ma una cosa è certa, gli adulti non si preoccupano assolutamente di lui. Perciò dobbiamo pensarci noi bambini.”

In questi raccontie Rilke ci presenta un Dio che per conoscere da vicino l’uomo, per vedere come era questa sua creatura e come viveva, manda la sua mano destra sulla terra, privandosene così e soffrendo per questo del suo distacco. Dio che si fa vicino, prossimo, che abita la vita dei protagonisti delle storie raccontate da Rilke, non un Dio distante e severo.

In alcune pagine il lettore ritrova lo stile di Rainer Maria Rilke di “Lettere a un giovane poeta”, nelle riflessioni sulla vita, sulla morte e sull’amore, come ad esempio nel racconto “Una fiaba sulla morte con una postilla di mano ignota”. “Gli eventi vengono smussati, si pensa di averli superati, quando improvvisamente…non c’è nulla che possa aiutare, la morte è qualcosa di incomprensibile, di spaventoso.” E, a proposito dell’amore: “Amarsi significa non accettare nulla da qualunque parte provenga, dimenticare tutto e voler ricevere tutto da una sola persona. (…) Ma con lo scorrere del tempo, nella vita di tutti i giorni in cui tutto va e viene, spesso prima che si raggiunga un vero rapporto, non si riesce a realizzare un amore simile.”

Storie ambientate in diverse parti del mondo, dalla Russia all’Italia, in diverse epoche e condizioni sociali, ma in ogni caso vite che trasudano la presenza del divino nei momenti di solitudine, di soferenza o perdita di persone care.

Uomini senza nome o noti come Michelangelo che percepiscono nella loro vita il bisogno di Dio, la ricerca di senso e di verità. Un percorso difficile, lento, un cammino in salita (come se avvicinandosi al cielo ci si avvicinasse a Dio) che a volte porta i personaggi a percepire la presenza di Dio dopo una vita di cadute e di scelte sbagliate. Racconti di conversioni, episodi che cambiano la vita, che fanno ‘convergere’ lo sguardo e il cuore dei protagonisti in un’altra direzione inaspettata. “A seconda dei casi, Dio e l’artista hanno la stessa ricchezza e la medesima povertà” dirà Rilke narrando la storia di giovani pittori incapaci di vedere la presenza di Dio nel prossimo. La stessa povertà che porterà Palla degli Albizzi, il protagonista del racconto “Il mendicante e la damigella orgogliosa” ambientato nella Firenze al tempo dei Medici, a cambiare vita, a farsi mendicante e donare tutto ai poveri.

“Spesso penso che forse la mano di Dio è di nuovo per strada…” risponde Rilke ad uno straniero che aveva accolto in casa sua una sera e a cui aveva raccontato una storia. Uno sconosciuto di un altro paese che gli aveva scritto una lettera manifestandogli la sua fiducia, considerandolo come un fratello a cui confidare problemi e necessità. E lo stesso Rilke precisa il perché del suo racconto proprio a lui: “E chi altri avrebbe potuto capirmi? Lei è arrivato da me senza rango, senza lavoro, senza alcun titolo, quasi senza nome. C’era buio quando lei è entrato, ma ugualmente ho notato nei suoi tratti una somiglianza…”

Ed è al buio, alle tenebre, che Rilke affida il suo ultimo racconto, “Una storia raccontata all’oscurità”. Una vita vissuta nello smarrimento, fino al momento in cui il protagonista cerca nel passato le proprie radici, ciò che “era stato motivo di gioia o di tristezza” e in cui poteva ancora riconoscersi e che poteva ridare un senso alla sua esistenza perché “ci si smarrisce così facilmente nella vita…”

Un racconto denso in cui l’incontro del protagonista con Clara, la compagna di giochi d’infanzia, aiuta la donna a fare memoria della proria vita e della ricerca di Dio o della fuga dalla Sua presenza nei momenti bui.

“Solo a Firenze, quando per la prima volta in vita mia vidi, udii, sentii, riconobbi, e allo stesso tempo imparai a ringraziare per tutto questo, solo allora pensai di nuovo a lui.” La riscoperta della sua presenza, l’attesa e la speranza condivisa: “Lei aspetta nuovamente un ospite meraviglioso, Dio, e sa che verrà…Poi, per caso, arrivo anch’io…Però questa volta aspetteremo fino alla fine.” Parole affidate sottovoce all’oscurità, vite ritrovate nell’intimità, storie in cui molti lettori possono riconoscersi: la forza della parola e della letteratura.


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