martedì, giugno 25, 2013
Visita ad una città e al suo museo-simbolo tra storia e attualità

di Renato Zilio

Il grido festoso dei gabbiani e l’odore forte di mare vi danno un prepotente senso di libertà. Quando si evoca il mare è sempre così, soprattutto a Liverpool. Il mare fa assaporare la distanza, la lontananza, il viaggio e l’avventura. Ma è precisamente il contrario che viene in mente qui sulla banchina del porto, chiamata Albert Dock. Non tanto la libertà, ma la schiavitù. Il commercio di schiavi. Un favoloso business d’oro per secoli arricchisce questa città più di tutti gli altri porti europei sulla pelle delle popolazioni nere d’Africa. Imponenti edifici ottocenteschi costruiti ambiziosamente sulla baia in fronte al mare lo dichiarano apertamente. È il simbolo di un’Inghilterra dominatrice dei mari e degli affari. Un impero che sembrava intramontabile. Odore di mare e di antica supremazia che tramite il lavoro forzato di milioni di uomini edificò una grande nazione industriale, particolarmente ricca e potente.

Paradossalmente, Liverpool si fa conoscere in tempi recenti dal mondo con un crew, un team di tutto rispetto: i Beatles. Doti musicali travolgenti, figli di una città di mare, nei mitici anni ’60. Ancora oggi il ricordo qui corre ovunque. “Fab Four” (“i favolosi quattro”) sta scritto a caratteri cubitali sui taxi locali per portarvi direttamente, come in pellegrinaggio, alle antiche dimore dei musicisti. La loro rivoluzione fu un immenso grido di libertà. Il pub dove si esercitavano ancora oggi continua a produrre la loro musica dal vivo, come un tempio sacro per i numerosi fedeli. Così, in un’unica città due anime e due volti. La libertà e la schiavitù.

Una segreta emozione vi prende subito quando vi addentrate all’interno dell’International Slavery Museum, il museo internazionale dello Schiavismo. È poco lontano dalla banchina del porto, e la città nella seconda metà del 18° secolo divenne in Europa “la capitale della tratta degli schiavi”. L’esposizione ricostruisce il percorso della tratta transatlantica di esseri umani, a partire dalla loro cattura sulle coste dell’Africa Occidentale, le atroci condizioni di trasporto in mare, intassati e bloccati letteralmente come in scatole di sardine, fino alla destinazione finale di piantagioni oltreatlantico. Dalla vita in libertà della loro Africa ai lavori forzati. Trattati come bestie da soma. Un duro destino. Dal ‘500 alla fine ‘800 un numero immenso di africani sono così trasportati, raggiungendo una punta di più di 3 milioni solo nel XVIII secolo.

Le stesse navi facevano poi rotta nel vecchio continente cariche di merci provenienti dalle piantagioni come zucchero, tabacco, spezie. L’aroma dissimulava il sudore e il sangue degli esseri umani di cui erano intrise. Viene messo in evidenza in questo museo la «resistenza» opposta a questa forma di oppressione e alle devastazioni culturali provocate in particolare nell’Africa sub-sahariana. I neri non sono stati vittime passive. Lo dimostrano i continui tentativi di rivolta, sabotaggio e tenace conservazione delle tradizioni culturali d’origine. Oltre che di suicidi. Attorno alle navi che solcavano l’oceano venivano perfino stese delle reti per questo. Jaimes Walvin nel suo libro “Il commercio di schiavi” parla delle navi di schiavi come “floating hell” (inferni galleggianti) a causa della violenza che a volte si scatenava ai livelli più terribili, del sudiciume, delle infezioni, delle tremende repressioni nel sangue. Viaggi che si basavano sulla “cultura della crudeltà”, come lui definisce questa esperienza fortemente traumatica. Si legge, poi, la malinconica testimonianza di William Prescott, schiavo liberato nel 1937: «Ricorderanno che siamo stati venduti, ma non che eravamo forti. Ricorderanno che siamo stati comprati, ma non che eravamo coraggiosi». Ma per gli africani sopravvissuti dopo l’attraversata l’arrivo in terraferma significava l’inizio di un altro incubo: la schiavitù a vita e un lavoro da spezzare le reni.

Con il tempo, verso la fine ‘700, si fece sempre più diffusa una campagna anti-schiavismo in Inghilterra. Due immagini erano per questo dappertutto impresse anche sulle tazze da tè: un negro inginocchiato con una didascalia: “Am I not a man and a brother?” o una nave imbottita all’inverosimile di essere umani incatenati. Il quacchero Thomas Clarkson riempiva un baule con oggetti africani, manette e fruste e teneva comizi per denunciare il crimine e sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di «commerciare merci dall’Africa e non esseri umani». Questo movimento fu una delle prima campagne antirazziste della storia. Portò all’abolizione della tratta degli schiavi, da parte del Parlamento inglese, avvenuta nel marzo 1807.

L’importanza oggi di un museo internazionale dello schiavismo è, secondo il Direttore del museo Richard Benjamin, non solo sottolineare la dimensione storica del fenomeno ma l’impatto permanente, ovvero le «ramificazioni estese fino agli incidenti razziali odierni». Secondo l’Organizzazione per la difesa dei Diritti Umani Anti-slavery International, la schiavitù, benché formalmente abolita, è una realtà dei nostri tempi, anche in paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. L’Ong Save the Children sottolinea che sono 1,2 milioni i minori di 18 anni attualmente vittime di tratta nel mondo, venduti, comprati, rapiti, adescati per essere poi utilizzati nell’industria del sesso, della prostituzione, in attività di accattonaggio o adozioni illegali e traffico di organi.

In fondo Liverpool, città dai due volti, ricorda che l’umanità naviga continuamente tra schiavitù e libertà. Tra umano e disumano. E che la nostra indifferenza e incoscienza sono le pericolose nebbie di mare che oscurano il cammino dell’umanità. “Liverpool is at the present moment the centre of consciousness of the human universe” lascia scritto qui Allen Ginsberg.

Sono presenti 0 commenti

Inserisci un commento

Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.



___________________________________________________________________________________________
Testata giornalistica iscritta al n. 5/11 del Registro della Stampa del Tribunale di Pisa
Proprietario ed Editore: Fabio Gioffrè
Sede della Direzione: via Socci 15, Pisa