Storie di donne. Di figlie e di madri. Oggi più che mai il pensiero corre a chi subisce e ha subito violenze e soprusi perché appartiene al genere femminile.
Liberainformazione - E quindi, vittime della rabbia, della pazzia, della ferocia di misogini che considerano le donne come oggetti di loro proprietà. Dimenticando che loro stessi, per nove mesi, hanno vissuto nel ventre, nel grembo di una donna: la loro madre. Allontanando dalla mente l’idea che l’uomo e la donna hanno pari dignità sociale e morale, facendo così prevalere la discriminazione, l’annientamento della donna. Oggi, 8 marzo, vogliamo ricordare tre storie di donne, i cui destini, sotto certi aspetti, si sono declinati in maniera analoga. Tutte e tre appartengono a mondi di mafia. Anzi, al mondo di Cosa nostra e della ‘ndrangheta.
Rita Atria, morta suicida a 18 anni, il 26 luglio 1992. Una settimana dopo la strage di via D’Amelio, dopo che lo “zio Paolo” era stato ucciso, insieme ai cinque agenti della sua scorta. Si era affidata a lui, Rita, per raccontare tutto ciò che sapeva della mafia. Che aveva vissuto sulla propria pelle. Suo padre Vito, boss di Partanna, era stato ucciso quando lei aveva undici anni. Suo fratello maggiore Nicola, diventato punto di riferimento per la famiglia e per la giovane sorella, raccoglie il testimone malavitoso del padre: sarà ucciso anche lui da Cosa nostra, nel 1991. Ostacolata dalla madre – che la rinnega al punto di non presenziare al suo funerale e di distruggere a martellate la lapide della figlia – Rita si affida a Paolo Borsellino, perché, come scrive nel tema di maturità: “Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi”.
Diventa una testimone di giustizia, viene fatta trasferire in una località protetta. Per lei, però, finisce tutto in quella dannata domenica di luglio, il 19 luglio 1992. La domenica successiva, in via Amelia a Roma, si getterà dal balcone della propria abitazione. Rita Atria, figlia e sorella di appartenenti alla criminalità organizzata. Come Lea Garofalo. A nove mesi rimane orfana del padre Antonio, ucciso nella cosiddetta faida di Pagliarelle, frazione di Petilia Policastro, Crotone. Il fratello maggiore Floriano prende in mano le redini della famiglia. Respira un clima di violenze e omicidi Lea, di rispetto che si deve guadagnare e mantenere, a costo di uccidere. Il sangue si lava con il sangue.
Ma Lea si ribella e cerca un futuro diverso a Milano, dove si trasferisce raggiungendo il ragazzo di cui, a 14 anni, si era innamorata: Carlo Cosco. Nel 1991 nasce la loro figlia Denise e sotto gli occhi di Lea si profilano le reali provenienze di denaro dei Cosco: detenzione e traffico di stupefacenti. La giovane donna non ci sta. Si ribella. Abbandona il convivente e si trasferisce da Milano. Successivamente decide di rivolgersi ai Carabinieri e viene inserita nel programma di protezione. Anche lei, come Rita, è una testimone di giustizia, che cerca un luogo dove “vivere e non sopravvivere. Tutto è meglio che stare là”. Ma la ‘ndrangheta cova rancore, livore. Non perdona chi rinnega la propria famiglia. Chi ne macchia l’onore. E Lea pagherà con la vita la sua scelta. Il 24 novembre 2009 sarà sequestrata, torturata, uccisa. Il 30 marzo dello scorso anno la prima Corte d’Assise del Tribunale di Milano ha stabilito che Carlo Cosco, i suoi fratelli Giuseppe e Vito, Massimo Sabatino, Rosario Curcio e Carmine Venturino hanno, dopo l’omicidio, sciolto nell’acido il cadavere di Lea Garofalo.
Sarà proprio quest’ultimo a confessare agli inquirenti, diversi mesi dopo, che in realtà il corpo non è stato sciolto ma arso. Che Lea Garofalo non è stata uccisa con un colpo di pistola alla nuca (l’arma non è stata peraltro mai ritrovata) ma strangolata. Venturino, il giovane a cui Carlo Cosco chiese, dopo l’omicidio, di avvicinarsi alla figlia con lo scopo di controllarla, senza poter prevedere che tra i due ragazzi sarebbe nata una simpatia. Ad aprile, inizierà il processo di appello. L’apertura delle indagini, la celebrazione delle udienze sono state rese possibili grazie al coraggio di Denise Cosco.
Figlia di un ‘ndranghetista, Carlo, e di una madre coraggio, Lea. Come Peppino Impastato. Suo padre Luigi fu mandato al confino durante il fascismo. Anche gli altri esponenti della sua famiglia erano mafiosi. La sua casa distava cento passi dall’abitazione del boss Tano Badalementi, “u’ ziu Tano”. Peppino Impastato diventa giornalista, attivista e politico. Dalle frequenze della sua “Radio Aut” denuncia che “La mafia è una montagna di merda”. Sarà ucciso a Cinisi, lo stesso giorno in cui a Roma, in via Caetani, il bagagliaio di una Renault 4 restituisce l’orribile verità sul sequestro di Aldo Moro: 9 maggio 1978.
Alla madre Felicia Bartolotta porteranno solo dei resti del figlio, massacrato di botte e buttato, imbottito di tritolo, sui binari della Cinisi-Palermo. Si mette in moto la delegittimazione e si parla di suicidio. Ma mamma Felicia non ci sta e chiede giustizia per il figlio che aveva avuto il coraggio di ribellarsi. Lo farà fino al 7 dicembre 2004, giorno della sua morte. Abbiamo voluto raccontare la storia di alcune donne che si sono ribellate. Ma la storia ce ne consegna molte, molte di più.
Liberainformazione - E quindi, vittime della rabbia, della pazzia, della ferocia di misogini che considerano le donne come oggetti di loro proprietà. Dimenticando che loro stessi, per nove mesi, hanno vissuto nel ventre, nel grembo di una donna: la loro madre. Allontanando dalla mente l’idea che l’uomo e la donna hanno pari dignità sociale e morale, facendo così prevalere la discriminazione, l’annientamento della donna. Oggi, 8 marzo, vogliamo ricordare tre storie di donne, i cui destini, sotto certi aspetti, si sono declinati in maniera analoga. Tutte e tre appartengono a mondi di mafia. Anzi, al mondo di Cosa nostra e della ‘ndrangheta.
Rita Atria, morta suicida a 18 anni, il 26 luglio 1992. Una settimana dopo la strage di via D’Amelio, dopo che lo “zio Paolo” era stato ucciso, insieme ai cinque agenti della sua scorta. Si era affidata a lui, Rita, per raccontare tutto ciò che sapeva della mafia. Che aveva vissuto sulla propria pelle. Suo padre Vito, boss di Partanna, era stato ucciso quando lei aveva undici anni. Suo fratello maggiore Nicola, diventato punto di riferimento per la famiglia e per la giovane sorella, raccoglie il testimone malavitoso del padre: sarà ucciso anche lui da Cosa nostra, nel 1991. Ostacolata dalla madre – che la rinnega al punto di non presenziare al suo funerale e di distruggere a martellate la lapide della figlia – Rita si affida a Paolo Borsellino, perché, come scrive nel tema di maturità: “Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi”.
Diventa una testimone di giustizia, viene fatta trasferire in una località protetta. Per lei, però, finisce tutto in quella dannata domenica di luglio, il 19 luglio 1992. La domenica successiva, in via Amelia a Roma, si getterà dal balcone della propria abitazione. Rita Atria, figlia e sorella di appartenenti alla criminalità organizzata. Come Lea Garofalo. A nove mesi rimane orfana del padre Antonio, ucciso nella cosiddetta faida di Pagliarelle, frazione di Petilia Policastro, Crotone. Il fratello maggiore Floriano prende in mano le redini della famiglia. Respira un clima di violenze e omicidi Lea, di rispetto che si deve guadagnare e mantenere, a costo di uccidere. Il sangue si lava con il sangue.
Ma Lea si ribella e cerca un futuro diverso a Milano, dove si trasferisce raggiungendo il ragazzo di cui, a 14 anni, si era innamorata: Carlo Cosco. Nel 1991 nasce la loro figlia Denise e sotto gli occhi di Lea si profilano le reali provenienze di denaro dei Cosco: detenzione e traffico di stupefacenti. La giovane donna non ci sta. Si ribella. Abbandona il convivente e si trasferisce da Milano. Successivamente decide di rivolgersi ai Carabinieri e viene inserita nel programma di protezione. Anche lei, come Rita, è una testimone di giustizia, che cerca un luogo dove “vivere e non sopravvivere. Tutto è meglio che stare là”. Ma la ‘ndrangheta cova rancore, livore. Non perdona chi rinnega la propria famiglia. Chi ne macchia l’onore. E Lea pagherà con la vita la sua scelta. Il 24 novembre 2009 sarà sequestrata, torturata, uccisa. Il 30 marzo dello scorso anno la prima Corte d’Assise del Tribunale di Milano ha stabilito che Carlo Cosco, i suoi fratelli Giuseppe e Vito, Massimo Sabatino, Rosario Curcio e Carmine Venturino hanno, dopo l’omicidio, sciolto nell’acido il cadavere di Lea Garofalo.
Sarà proprio quest’ultimo a confessare agli inquirenti, diversi mesi dopo, che in realtà il corpo non è stato sciolto ma arso. Che Lea Garofalo non è stata uccisa con un colpo di pistola alla nuca (l’arma non è stata peraltro mai ritrovata) ma strangolata. Venturino, il giovane a cui Carlo Cosco chiese, dopo l’omicidio, di avvicinarsi alla figlia con lo scopo di controllarla, senza poter prevedere che tra i due ragazzi sarebbe nata una simpatia. Ad aprile, inizierà il processo di appello. L’apertura delle indagini, la celebrazione delle udienze sono state rese possibili grazie al coraggio di Denise Cosco.
Figlia di un ‘ndranghetista, Carlo, e di una madre coraggio, Lea. Come Peppino Impastato. Suo padre Luigi fu mandato al confino durante il fascismo. Anche gli altri esponenti della sua famiglia erano mafiosi. La sua casa distava cento passi dall’abitazione del boss Tano Badalementi, “u’ ziu Tano”. Peppino Impastato diventa giornalista, attivista e politico. Dalle frequenze della sua “Radio Aut” denuncia che “La mafia è una montagna di merda”. Sarà ucciso a Cinisi, lo stesso giorno in cui a Roma, in via Caetani, il bagagliaio di una Renault 4 restituisce l’orribile verità sul sequestro di Aldo Moro: 9 maggio 1978.
Alla madre Felicia Bartolotta porteranno solo dei resti del figlio, massacrato di botte e buttato, imbottito di tritolo, sui binari della Cinisi-Palermo. Si mette in moto la delegittimazione e si parla di suicidio. Ma mamma Felicia non ci sta e chiede giustizia per il figlio che aveva avuto il coraggio di ribellarsi. Lo farà fino al 7 dicembre 2004, giorno della sua morte. Abbiamo voluto raccontare la storia di alcune donne che si sono ribellate. Ma la storia ce ne consegna molte, molte di più.
A loro, a tutte loro, semplicemente GRAZIE.
Marika Demaria, giornalista di Narcomafie
Tweet |
Sono presenti 0 commenti
Inserisci un commento
Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.