Presentato un documentario nel 17° anniversario dell'omicidio del penalista catanese
Liberainformazione - Vetrate e telecamere spaccate. Per il villaggio della legalità intitolato a Serafino Famà – l’avvocato penalista ucciso a Catania dalla mafia 17 anni fa – a Borgo Sabotino, in provincia di Latina, un altro atto vandalico a un anno di distanza dal precedente. Il 18 luglio 2011, un’area di quattro ettari confiscata alla criminalità organizzata era stata ufficialmente consegnata alla sua nuova vita: un campo per la sede laziale dell’associazione antimafia Libera. Quattro mesi dopo, nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 2011, quel posto era stato completamente devastato.
«Hanno urinato sulle bandiere, spaccato tavoli e sedie, svuotato un estintore intero sul pavimento, rubato perfino l’autopompa della Protezione civile. Abbiamo risposto all’intimidazione mafiosa con una festa», aveva raccontato all’indomani di quell’evento Flavia Famà, figlia dell’uomo al quale quel posto era stato dedicato. Ieri l’ennesimo atto intimidatorio. Secondo la ricostruzione fatta dai volontari che gestiscono il centro, un’auto era entrata nella struttura ed era stata registrata dall’impianto di videosorveglianza. Le telecamere, poco dopo, si sono spente. E sono state ritrovate spaccate, come alcune delle vetrate dello stabilimento. Tutto questo, a un giorno dal diciassettesimo anniversario dell’uccisione di Serafino Famà, avvenuta il 9 novembre 1995, a Catania, in quell’area di piazzale Sanzio che oggi porta il suo nome.
Erano le 21 di una sera qualunque, quando sei colpi di pistola calibro 7,65 colpiscono e uccidono il popolare penalista catanese. Il mandante dell’omicidio, si scoprirà un anno e mezzo dopo, è dal carcere Giuseppe Di Giacomo, reggente del clan dei Laudani. Il movente, scriveranno i giudici nella sentenza di condanna del boss, «va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell’attività professionale espletato dall’avvocato Famà». Il quale, consigliando a una sua assistita di non rilasciare alcuna deposizione, ha evitato la scarcerazione di Di Giacomo.
«Una settimana dopo l’omicidio – ricorda Flavia Famà – durante un’udienza del processo Orsa maggiore, uno dei più grossi procedimenti di mafia mai messi in piedi dalla procura di Catania, un boss dei Santapaola, nel corso di una testimonianza, prese le distanze dall’omicidio». Questa e altre scene di quegli anni sono confluite nel documentario "Tra due fuochi. Serafino Famà: storia di un avvocato", realizzato da Flavia e dal giornalista Simone Mercurio, con la produzione di Libera, che sarà proiettato oggi pomeriggio alle 16, in anteprima nazionale, nell’aula magna del dipartimento di Scienze politiche.
«L’idea – dice Flavia – mi è venuta poco più di un anno fa». Era stata in provincia di Lecce, aveva partecipato a un incontro sulla legalità, e aveva messo insieme alcuni video del padre da mostrare alla platea. Aveva recuperato vecchie videocassette, filmati raccolti negli anni in cui è andata in giro per l’Italia a raccontare chi era quell’avvocato morto per fare il suo mestiere, immagini dei telegiornali e video privati. «Quando mi sono accorta che alla gente piaceva, ho pensato che volevo montare qualche scena anche per me, per riguardarmela da sola e ricordare mio padre». Ha cominciato a lavorarci sopra. E il 22 ottobre 2011, il giorno della devastazione del campo di Borgo Sabotino, ha conosciuto chi l’ha poi aiutata a trasformare il suo piccolo progetto in un documentario di 20 minuti.
«Simone fa il montatore per la Rai e si è occupato del servizio sulla prima vandalizzazione che ha subito il villaggio Serafino Famà», racconta la ragazza. In un anno di lavoro – «instancabile e notturno» – gli spezzoni hanno iniziato ad avere un filo logico da seguire. «Il video inizia con un mafioso che spiega come la mafia scegliesse i suoi avvocati, per questioni di amicizia e politiche». E prosegue con l’Etna in eruzione e con il mare di Catania: «L’idea era quella di rendere sin dai primi istanti il contrasto, fortissimo, tra la mafia e la bellezza della nostra terra». Intanto, del documentario sono state realizzate 500 copie, «in futuro si vedrà». Nel frattempo, a Flavia resta «la gioia di aver fatto qualcosa che tutti possono vedere e da cui, spero, tutti possano trarre ispirazione: ho capito che è solo facendo le cose, provando e spiegando, che possiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo».
Liberainformazione - Vetrate e telecamere spaccate. Per il villaggio della legalità intitolato a Serafino Famà – l’avvocato penalista ucciso a Catania dalla mafia 17 anni fa – a Borgo Sabotino, in provincia di Latina, un altro atto vandalico a un anno di distanza dal precedente. Il 18 luglio 2011, un’area di quattro ettari confiscata alla criminalità organizzata era stata ufficialmente consegnata alla sua nuova vita: un campo per la sede laziale dell’associazione antimafia Libera. Quattro mesi dopo, nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 2011, quel posto era stato completamente devastato.
«Hanno urinato sulle bandiere, spaccato tavoli e sedie, svuotato un estintore intero sul pavimento, rubato perfino l’autopompa della Protezione civile. Abbiamo risposto all’intimidazione mafiosa con una festa», aveva raccontato all’indomani di quell’evento Flavia Famà, figlia dell’uomo al quale quel posto era stato dedicato. Ieri l’ennesimo atto intimidatorio. Secondo la ricostruzione fatta dai volontari che gestiscono il centro, un’auto era entrata nella struttura ed era stata registrata dall’impianto di videosorveglianza. Le telecamere, poco dopo, si sono spente. E sono state ritrovate spaccate, come alcune delle vetrate dello stabilimento. Tutto questo, a un giorno dal diciassettesimo anniversario dell’uccisione di Serafino Famà, avvenuta il 9 novembre 1995, a Catania, in quell’area di piazzale Sanzio che oggi porta il suo nome.
Erano le 21 di una sera qualunque, quando sei colpi di pistola calibro 7,65 colpiscono e uccidono il popolare penalista catanese. Il mandante dell’omicidio, si scoprirà un anno e mezzo dopo, è dal carcere Giuseppe Di Giacomo, reggente del clan dei Laudani. Il movente, scriveranno i giudici nella sentenza di condanna del boss, «va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell’attività professionale espletato dall’avvocato Famà». Il quale, consigliando a una sua assistita di non rilasciare alcuna deposizione, ha evitato la scarcerazione di Di Giacomo.
«Una settimana dopo l’omicidio – ricorda Flavia Famà – durante un’udienza del processo Orsa maggiore, uno dei più grossi procedimenti di mafia mai messi in piedi dalla procura di Catania, un boss dei Santapaola, nel corso di una testimonianza, prese le distanze dall’omicidio». Questa e altre scene di quegli anni sono confluite nel documentario "Tra due fuochi. Serafino Famà: storia di un avvocato", realizzato da Flavia e dal giornalista Simone Mercurio, con la produzione di Libera, che sarà proiettato oggi pomeriggio alle 16, in anteprima nazionale, nell’aula magna del dipartimento di Scienze politiche.
«L’idea – dice Flavia – mi è venuta poco più di un anno fa». Era stata in provincia di Lecce, aveva partecipato a un incontro sulla legalità, e aveva messo insieme alcuni video del padre da mostrare alla platea. Aveva recuperato vecchie videocassette, filmati raccolti negli anni in cui è andata in giro per l’Italia a raccontare chi era quell’avvocato morto per fare il suo mestiere, immagini dei telegiornali e video privati. «Quando mi sono accorta che alla gente piaceva, ho pensato che volevo montare qualche scena anche per me, per riguardarmela da sola e ricordare mio padre». Ha cominciato a lavorarci sopra. E il 22 ottobre 2011, il giorno della devastazione del campo di Borgo Sabotino, ha conosciuto chi l’ha poi aiutata a trasformare il suo piccolo progetto in un documentario di 20 minuti.
«Simone fa il montatore per la Rai e si è occupato del servizio sulla prima vandalizzazione che ha subito il villaggio Serafino Famà», racconta la ragazza. In un anno di lavoro – «instancabile e notturno» – gli spezzoni hanno iniziato ad avere un filo logico da seguire. «Il video inizia con un mafioso che spiega come la mafia scegliesse i suoi avvocati, per questioni di amicizia e politiche». E prosegue con l’Etna in eruzione e con il mare di Catania: «L’idea era quella di rendere sin dai primi istanti il contrasto, fortissimo, tra la mafia e la bellezza della nostra terra». Intanto, del documentario sono state realizzate 500 copie, «in futuro si vedrà». Nel frattempo, a Flavia resta «la gioia di aver fatto qualcosa che tutti possono vedere e da cui, spero, tutti possano trarre ispirazione: ho capito che è solo facendo le cose, provando e spiegando, che possiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo».
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