È la tangente che si paga ai guerriglieri somali che favoriscono lo smaltimento illegale dei rifiuti tossici
La relazione pubblicata dalla Direzione Nazionale Antimafia ha rivelato il fenomeno del traffico illecito di armi che dal porto San Vitale di Ravenna raggiungevano le coste della Somalia. L’ufficio centrale antifrode dell’Agenzia delle Dogane ha confermato che gli armamenti giungevano nelle mani di Al-Shebaab, un’organizzazione di integralisti islamici che governa la nazione. La violazione all’embargo del materiale bellico riapre un capitolo già aperto nel 1994 dalla giornalista del TG3 Ilaria Alpi e dall’operatore Miran Hrovatin, che a Mogadiscio poi, nel mese di marzo, persero la vita. Successivamente, a novembre, fu ucciso anche Vincenzo Li Causi, il sottoufficiale del SISMI nonché l’informatore dell’inviata. L’inchiesta su queste morti, ancora aperta, investiga sui molti rapporti sospetti che l’Italia ha con la Somalia.
Il traffico di armi è una sorta di ricompensa verso chi si occupa dello smaltimento di rifiuti tossici nelle acque del Golfo di Aden, a nord dello stato africano, ma anche nell’oceano Indiano, a sud. La reporter italiana pagò questa scoperta clamorosa con il duro prezzo della morte, ma da allora nulla è stato fatto per bloccare un’attività illegale che procura disastri enormi: in primis viene inquinato il mare, dove si allevano centinaia di specie di tonno giallo albicora, che è stato intossicato ma che risulta ugualmente venduto in tutta Europa; ancora più nefasto è l’impatto che questo materiale procura alla gente somala. Per non parlare poi delle armi…
Per comprendere meglio la dinamica dei fatti occorre tornare indietro di qualche anno e ricordare lo tsunami che nel 2004 devastò l’Indonesia. Il violento maremoto ha riportato a galla i detriti che si erano depositati sul fondale marino e così gli enormi cilindri di metallo hanno raggiunto le spiagge della Somalia. Gli abitanti si sono subito lanciati sul materiale non sapendo cosa in realtà potesse essere, e nell’arco di pochi giorni molti si sono ammalati e alcuni sono morti. Ora i rifiuti ricoprono una terra ricchissima di riserve minerarie di ferro, stagno, uranio, rame, di depositi di gas naturale e di petrolio greggio. Ma tutte queste risorse sono gestite dagli americani, dai cinesi, dagli australiani, dai canadesi.
Le delegazioni di questi Paesi, e di molti altri, si sono riunite il 23 febbraio a Londra presso la Lancaster House. David Cameron, il primo ministro britannico, ha aperto l’incontro soffermandosi sull’enorme potenziale di crescita economica dell’Africa. Ogni rappresentante ha esibito con eloquenza una lunga serie di promesse e di progetti ritenuti indispensabili per aiutare la Somalia. Con severità Hilary Clinton, segretario di stato americano, ha minacciato sanzioni contro chi si opporrà al processo di pace. D’accordo anche la Francia, che si pone come obiettivo principale quello di ristabilire la pace nel continente nero. Anche l’Italia era presente, e Giulio Terzi, il ministro degli esteri, ha messo in evidenza l’esistenza di alcune reali opportunità di ricostruzione per la Somalia, definendo la nostra nazione un interlocutore indispensabile per la risoluzione dei problemi sociali somali. Per ora, tuttavia, l’unico dialogo avviato sembra essere quello sul commercio di armi, che a sua volta nasconde, come detto, il traffico illecito di rifiuti nella nazione africana.
In ogni caso la Somalia vive da più di 20 anni una guerra civile che ha martoriato l’intera popolazione, vittima di Al-Shebaab, un’amministrazione politica che sta seminando violenza e terrore. Questa organizzazione poggia il suo potere su una struttura nata nel 2004 nella cittadina di El Buur in seguito ad un accordo con le autorità tradizionali locali, che la lasciano agire liberamente. Ma il dato più allarmante è il complotto con Al-Qaeda che favorisce il commercio di armi tramite le tante cellule terroristiche sparse nel mondo. Anche in Italia, e quanto scoperto a Ravenna conferma uno scenario preoccupante. I 4000 soldati reclutati da un organo denominato Al-Daiwa rappresentano l’Al-Usra, l’ala militare di Al-Shebaab. Loro hanno già occupato le città, rispettando così le decisioni prese dalla Shura, una sorta di parlamento dell’organizzazione che conta sull’aiuto dell’Al-Hesbah, la polizia religiosa, che controlla con rigidità l’osservanza dei costumi islamici.
Le potenze internazionali hanno corrotto Al-Shebaab garantendo armi e tangenti in cambio dello smaltimento del materiale tossico. Così, visto che la politica non risponde efficacemente ai loro problemi, i somali hanno deciso di farsi giustizia da soli con la pirateria. Il fenomeno naturalmente non è accettabile, ma occorre appunto comprendere cosa spinge questi uomini ad attaccare le navi. I pirati fra l’altro si sono organizzati per bloccare il dumping dei rifiuti tossici. È una sorta di legittima difesa che non è riconosciuta come tale, anzi è considerata un attacco terroristico da frenare. William Hague, il ministro degli esteri britannico, ha infatti provveduto a far sorgere un centro presso le Seychelles, e l’Operazione Atalanta è il nome del progetto che, attraverso la Royal Navy, provvederà a bloccare gli agguati dei pirati. Janna Ali Jama, il capo-pirata somalo, ha risposto affermando che le navi non dovranno più scaricare i rifiuti nel Golfo di Aden, ma c’è da credere che la sua richiesta non sarà accolta…
La relazione pubblicata dalla Direzione Nazionale Antimafia ha rivelato il fenomeno del traffico illecito di armi che dal porto San Vitale di Ravenna raggiungevano le coste della Somalia. L’ufficio centrale antifrode dell’Agenzia delle Dogane ha confermato che gli armamenti giungevano nelle mani di Al-Shebaab, un’organizzazione di integralisti islamici che governa la nazione. La violazione all’embargo del materiale bellico riapre un capitolo già aperto nel 1994 dalla giornalista del TG3 Ilaria Alpi e dall’operatore Miran Hrovatin, che a Mogadiscio poi, nel mese di marzo, persero la vita. Successivamente, a novembre, fu ucciso anche Vincenzo Li Causi, il sottoufficiale del SISMI nonché l’informatore dell’inviata. L’inchiesta su queste morti, ancora aperta, investiga sui molti rapporti sospetti che l’Italia ha con la Somalia.
Il traffico di armi è una sorta di ricompensa verso chi si occupa dello smaltimento di rifiuti tossici nelle acque del Golfo di Aden, a nord dello stato africano, ma anche nell’oceano Indiano, a sud. La reporter italiana pagò questa scoperta clamorosa con il duro prezzo della morte, ma da allora nulla è stato fatto per bloccare un’attività illegale che procura disastri enormi: in primis viene inquinato il mare, dove si allevano centinaia di specie di tonno giallo albicora, che è stato intossicato ma che risulta ugualmente venduto in tutta Europa; ancora più nefasto è l’impatto che questo materiale procura alla gente somala. Per non parlare poi delle armi…
Per comprendere meglio la dinamica dei fatti occorre tornare indietro di qualche anno e ricordare lo tsunami che nel 2004 devastò l’Indonesia. Il violento maremoto ha riportato a galla i detriti che si erano depositati sul fondale marino e così gli enormi cilindri di metallo hanno raggiunto le spiagge della Somalia. Gli abitanti si sono subito lanciati sul materiale non sapendo cosa in realtà potesse essere, e nell’arco di pochi giorni molti si sono ammalati e alcuni sono morti. Ora i rifiuti ricoprono una terra ricchissima di riserve minerarie di ferro, stagno, uranio, rame, di depositi di gas naturale e di petrolio greggio. Ma tutte queste risorse sono gestite dagli americani, dai cinesi, dagli australiani, dai canadesi.
Le delegazioni di questi Paesi, e di molti altri, si sono riunite il 23 febbraio a Londra presso la Lancaster House. David Cameron, il primo ministro britannico, ha aperto l’incontro soffermandosi sull’enorme potenziale di crescita economica dell’Africa. Ogni rappresentante ha esibito con eloquenza una lunga serie di promesse e di progetti ritenuti indispensabili per aiutare la Somalia. Con severità Hilary Clinton, segretario di stato americano, ha minacciato sanzioni contro chi si opporrà al processo di pace. D’accordo anche la Francia, che si pone come obiettivo principale quello di ristabilire la pace nel continente nero. Anche l’Italia era presente, e Giulio Terzi, il ministro degli esteri, ha messo in evidenza l’esistenza di alcune reali opportunità di ricostruzione per la Somalia, definendo la nostra nazione un interlocutore indispensabile per la risoluzione dei problemi sociali somali. Per ora, tuttavia, l’unico dialogo avviato sembra essere quello sul commercio di armi, che a sua volta nasconde, come detto, il traffico illecito di rifiuti nella nazione africana.
In ogni caso la Somalia vive da più di 20 anni una guerra civile che ha martoriato l’intera popolazione, vittima di Al-Shebaab, un’amministrazione politica che sta seminando violenza e terrore. Questa organizzazione poggia il suo potere su una struttura nata nel 2004 nella cittadina di El Buur in seguito ad un accordo con le autorità tradizionali locali, che la lasciano agire liberamente. Ma il dato più allarmante è il complotto con Al-Qaeda che favorisce il commercio di armi tramite le tante cellule terroristiche sparse nel mondo. Anche in Italia, e quanto scoperto a Ravenna conferma uno scenario preoccupante. I 4000 soldati reclutati da un organo denominato Al-Daiwa rappresentano l’Al-Usra, l’ala militare di Al-Shebaab. Loro hanno già occupato le città, rispettando così le decisioni prese dalla Shura, una sorta di parlamento dell’organizzazione che conta sull’aiuto dell’Al-Hesbah, la polizia religiosa, che controlla con rigidità l’osservanza dei costumi islamici.
Le potenze internazionali hanno corrotto Al-Shebaab garantendo armi e tangenti in cambio dello smaltimento del materiale tossico. Così, visto che la politica non risponde efficacemente ai loro problemi, i somali hanno deciso di farsi giustizia da soli con la pirateria. Il fenomeno naturalmente non è accettabile, ma occorre appunto comprendere cosa spinge questi uomini ad attaccare le navi. I pirati fra l’altro si sono organizzati per bloccare il dumping dei rifiuti tossici. È una sorta di legittima difesa che non è riconosciuta come tale, anzi è considerata un attacco terroristico da frenare. William Hague, il ministro degli esteri britannico, ha infatti provveduto a far sorgere un centro presso le Seychelles, e l’Operazione Atalanta è il nome del progetto che, attraverso la Royal Navy, provvederà a bloccare gli agguati dei pirati. Janna Ali Jama, il capo-pirata somalo, ha risposto affermando che le navi non dovranno più scaricare i rifiuti nel Golfo di Aden, ma c’è da credere che la sua richiesta non sarà accolta…
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