lunedì, gennaio 09, 2012
Con la liberalizzazione degli orari di apertura e di chiusura dei negozi, prevista dal decreto Monti (da poco convertito in legge), sarà possibile lavorare senza limitazioni d’orario durante la giornata, anche nelle domeniche e nei giorni festivi. Una misura necessaria per la crescita o un pericoloso segnale di ritorno ad una visione efficientista e disumanizzante del lavoro?

di Bartolo Salone

Il nuovo decreto-legge sulla manovra finanziaria voluto dal governo Monti, noto come decreto “Salva Italia”, ha dato il via alla liberalizzazione degli orari di apertura e di chiusura degli esercizi commerciali, anche al di fuori dei comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte. I commercianti, come anche i titolari di bar, pub, ristoranti e, in genere, di locali di somministrazione di cibo e bevande, non appena la nuova disciplina entrerà a regime (a tal fine è previsto che le regioni e gli enti locali adeguino i propri ordinamenti alla nuova norma sulle liberalizzazioni entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione), potranno definire in piena libertà gli orari di apertura e chiusura giornalieri, per di più senza obbligo di rispettare la chiusura per mezza giornata durante la settimana o il riposo domenicale e festivo. Insomma, sarà possibile lavorare in ogni ora del giorno per tutti i giorni, ivi comprese le domeniche e i festivi.

La deregulation degli orari, non più circoscritta alle sole città d’arte o località turistiche, viene motivata dal Governo per ragioni di ripresa economica e di incremento della produttività. D’accordo alcune associazioni di consumatori, secondo cui il nuovo sistema offrirà al commercio l’opportunità di rinnovarsi e di puntare sulla concorrenza per conquistare la clientela. Decisamente contrari, invece, i sindacati e le associazioni dei commercianti, i quali temono che la liberalizzazione “selvaggia” degli orari di apertura vada ad esclusivo vantaggio delle grandi catene di distribuzione, costringendo a lungo andare i piccoli esercenti, incapaci di reggere la concorrenza, ad uscire dal mercato. E’ infatti di tutta evidenza che solo i soggetti “grandi” possono contare sul personale necessario per tenere aperti i locali 24 ore su 24, mentre le piccole imprese a conduzione familiare, che costituiscono una realtà importante e radicata nel tessuto economico del nostro Paese, nell’impossibilità di competere con i primi – per carenza di sufficiente personale - sul terreno degli orari di lavoro, man mano che avanzano outlet e centri commerciali sarebbero costretti inesorabilmente a chiudere. Osserva inoltre Alfredo Prete, presidente della Confcommercio leccese, che anche sul piano del confronto con gli altri Paesi europei, la soluzione adottata dal decreto “Salva Italia” risulta alquanto discutibile. Se è vero, infatti, che in Francia e in Germania non vi è alcun limite di orario giornaliero di apertura e chiusura degli esercizi commerciali, è altrettanto vero – commenta il presidente della Confcommercio – che è quantomeno salvaguardato il principio dell’apertura per deroga nelle giornate domenicali e festive: in Italia, invece, si è scelta la via della completa deregolamentazione dell’attività commerciale, anche nelle giornate domenicali e festive.

Possiamo dunque dire che la nuova manovra economica, sul piano della liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali, sembra muoversi in un’ottica esasperatamente neo-liberista, attenta unicamente alle esigenze della produzione e dei consumi. In una bieca prospettiva economicistica, gli uomini si dividono, infatti, in due categorie: lavoratori e consumatori. In una prospettiva più evoluta e – diciamo pure – più umana, l’uomo è visto come un essere caratterizzato da esigenze spirituali e dotato di interessi sociali, culturali, familiari, religiosi che un sistema normativo e istituzionale davvero equo dovrebbe consentire di coltivare e soddisfare. Uno Stato che si preoccupasse poi di garantire ai suoi cittadini il solo diritto al lavoro, privando al contempo il lavoratore del tempo necessario a sviluppare la sua personalità nell’ambito familiare ed extralavorativo, finirebbe col determinare una situazione intollerabile, di sostanziale alienazione nel lavoro e con con una percezione falsata di sé e della propria dignità. Ecco perché accanto al diritto al lavoro un’organizzazione socio-politica che voglia essere al servizio dell’uomo deve garantire il diritto al riposo e al tempo libero. Senza il riposo e il tempo libero infatti il lavoro si trasforma inevitabilmente in pena e fatica, privando l’uomo della stessa gioia di vivere. Senza il riposo, il lavoro, da esperienza umana, diventa esperienza disumanizzante, in quanto l’uomo, ridotto a mera “forza-lavoro”, come ci ricorda la dottrina sociale della Chiesa, perde la capacità di concepirsi perfino come persona.

La deregulation degli orari degli esercizi commerciali non si muove certo lungo la via di una maggiore “umanizzazione” del lavoro. Soprattutto le piccole imprese, per garantire un’apertura continuativa, come abbiamo visto, si troveranno nella situazione di dover scegliere tra il diritto al riposo e alla famiglia e la dolorosa rinuncia all’attività. Ma la piena liberalizzazione degli orari rischia di creare una situazione disumanizzante per i lavoratori subordinati in genere, costretti a lavorare, in ipotesi, anche di notte e nei festivi, vale a dire nei giorni e nei momenti normalmente (e giustamente) dedicati al riposo. Certo, un adeguato sistema di turnazione garantirà al lavoratore (come del resto avviene tuttora in alcuni settori considerati di prima necessità, come i servizi pubblici essenziali) i necessari momenti di riposo: chi lavora di notte potrà riposare nelle ore diurne, così come chi lavora la domenica potrà riposare in un altro giorno della settimana. Ma è anche vero che non tutti i giorni e non tutte le ore della giornata si equivalgono: per un genitore, ad esempio, dover lavorare anche nei festivi può voler dire rinunciare a stare con i figli nei soli giorni in cui, anche per effetto della sospensione delle attività scolastiche, questo sarebbe possibile; così come per un lavoratore dover lavorare nelle ore notturne significa rinunciare a vivere attivamente durante il giorno, ove la gran parte delle iniziative sociali e culturali normalmente si concentrano. Per cui, una generale deregolamentazione degli orari lavorativi non risponde certamente agli interessi delle persone che lavorano, specie se alle dipendenze di altri.

“Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo” ci ammonisce l’autore del libro biblico dell’Ecclesiaste. In particolare c’è un tempo per lavorare e un tempo per riposarsi. E bisogna comprendere, contro una certa mentalità materialistica oggi tanto diffusa, che il riposo non serve solamente a recuperare le forze fisiche per tornare nuovamente a faticare (secondo una concezione meccanicistica dell’esistenza). Il riposo risponde piuttosto ad una esigenza spirituale radicata nel cuore dell’uomo, ossia il bisogno di contemplare i frutti del proprio lavoro per poter gioire di quel che di buono e di bello, anche se con fatica, si è realizzato. Se si guarda con attenzione al racconto biblico della creazione del mondo (Gen 1,1-2,4), non sfuggirà un particolare: al termine di ogni giornata (la creazione venne portata a termine in sei giorni e il settimo giorno Dio si riposò) il Signore si fermava a contemplare quel che aveva fatto e puntualmente constatava che “era cosa buona” (o “molto buona”), benedicendo l’opera delle sue mani. Grazie al riposo l’uomo impara ad andare “oltre”, a vedere cosa rimane al di là delle sue fatiche, ad aprirsi al mistero della vita. Non sarà forse questa capacità di vedere “oltre” che manca all’uomo moderno e ancor di più alla nostra politica?

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