giovedì, maggio 19, 2011
Articolo di Mariangela Laviano (arabista ed esperta in progettazione partecipata)

Le cronache dei giorni scorsi ci portano ad affrontare alcune tematiche che, anche se riferite a eventi tragici, possono diventare un’occasione per allargare i nostri orizzonti e avvicinarci sempre più a realtà spesso poco conosciute o peggio ancora ignorate. Ad esempio, l’ultimo episodio nell’Egitto del post-rivoluzione ha visto copti e musulmani scontrarsi, riaccendendo così la miccia dell’odio etnico-religioso. Certamente episodi di tal fatta si sono registrati anche in passato, ma per meglio comprendere le origini del rapporto tra copti e musulmani è necessario fare un bel salto indietro nella storia. Il millennio caratterizzato dalle conquiste di Alessandro Magno e successivamente da quelle arabe simboleggia uno dei periodi più interessanti di incontro tra due civiltà, quella egiziana e quella greco-romana, differenti, ricche di tradizioni dal punto di vista culturale, sociale ma anche politico.

In questo humus così fecondo si diffonde a partire dall’inizio del II sec. d.C. una vasta gamma di forme di cristianesimo che trovano in Alessandria, grande metropoli del mondo antico, il loro centro di propagazione. La chiesa copta, in particolar modo, fa la sua comparsa ufficiale nella storia alla fine del II sec., verso il 190. Gli stessi copti ritengono che la loro chiesa sia stata fondata da san Marco verso la metà del I sec.. Quando si parla di cristiani d’Egitto, ci si riferisce ad essi col termine copti, appunto, ma anche la loro lingua, la loro scrittura, la loro arte, la storia e la loro chiesa sono dette copte.
Ma perché vengono chiamati copti? A tal proposito, vi sono diverse ipotesi. Secondo la prima di queste, il nome deriverebbe da Caftor, figlio di Misryam e pronipote di Noè. Caftor, stabilitosi per primo nella valle del Nilo, avrebbe dato il suo nome alla città di Coptos, l’attuale Qift.
Una seconda ipotesi farebbe derivare il nome copto dal verbo greco Kopto, cioè “taglio, reciso”. In questo caso, si fa riferimento a quando i cristiani d’Egitto si separarono dalla chiesa cristiana dopo il concilio di Calcedonia (451).
La terza ipotesi, quella più diffusa, sostiene che gli Arabi, alterando il termine greco Aigúptios “egiziano” (nella scrittura araba non vengono trascritti né vocali né dittonghi) dopo la loro conquista dell’Egitto nel 639-42, chiamarono gli egiziani nativi Qbt o Qpht (in arabo non esiste la lettera “p”) che divenne a sua volta cophto e dunque copto nella lingue occidentali.

Nei quattro secoli che seguirono la conquista araba dell'Egitto, la chiesa copta fiorì e l'Egitto rimase in sostanza cristiano. Secondo la tradizione islamica, i copti godettero presso il Profeta dell'Islam, Muhammad, di grande benevolenza, poichè egli aveva una moglie egiziana, Māriya bint Sham ‘ūn b. Ibrāhīm, detta la Copta, al-Qibtiyya. Tanto che al profeta sono attribuite queste parole: "Quando conquisti l'Egitto, sii gentile con i Copti, perché essi sono tuoi protetti e amici e parenti". I copti, infatti, come gli altri cristiani e gli ebrei abitanti delle terre conquistate dagli arabi, erano soggetti allo statuto dell’Ahl al-Dhimma (letteralmente la “gente della dhimma o patto di protezione”) cioè sotto pagamento di una tassa era permesso loro di praticare la propria religione e li esonerava dalla conversione forzata, facendoli entrare così nella categoria di “protetti”. Coloro che non potevano provvedere al pagamento di questa tassa si trovavano di fronte alla scelta di convertirsi all'Islam o di perder i loro diritti civili di "protetti", e quindi anche morire.

L'aspetto cristiano dell'Egitto cominciò a mutare dall'inizio del secondo millennio, quando ai copti, oltre alla tassa, vennero imposte specifiche limitazioni, alcune delle quali erano gravi ed interferivano con la loro libertà di culto.

Tornando ai nostri giorni, l’Egitto del terzo millennio, caratterizzato dai noti fermenti rivoluzionari che hanno portato alla destituzione del presidente Mubarak, mantiene immutate le secolari difficoltà nell’armonizzazione delle pratiche religiose, e se da un lato l’egiziano musulmano o copto che fosse ha combattuto per la libertà in piazza Tahrir, dall’altro fatica a riconoscere alle comunità religiose quella reciprocità nella libertà della professione del proprio culto. Riflettendo realisticamente sull’andamento di queste dinamiche, così difficili da studiare, viene da pensare che talvolta piuttosto che cercare una “soluzione” al conflitto sarebbe meglio riflettere su una migliore “gestione” dello stesso.

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