venerdì, gennaio 29, 2010
del nostro collaboratore Lorenzo Prencipe, Presidente Centro Studi Emigrazione Roma (CSER)

Il 28 e 29 marzo 2010 in Italia si vota ancora. Sono, infatti, in scadenza i governi di 13 Regioni, di cui solo due (Lombardia e Veneto) attualmente amministrate dal centro-destra, 11 Province e 1.025 amministrazioni comunali. Come sempre capita, malgrado si tratti di elezioni amministrative locali dove quello che dovrebbe prevalere è la ricerca di candidati capaci di rispondere alle sfide e problematiche presenti nei diversi territori, in Italia ogni tornata elettorale assume una “impropria” valenza nazionale, dove - in maniera spesso demagogica - la maggioranza di governo ne approfitta per vantare suoi meriti e occultare le sue manchevolezze e l’opposizione cerca - in maniera ossessiva – tutte le scorciatoie (comprese quelle “giudiziarie”) per assestare la famigerata “spallata” al governo in carica.

Comincia così lo stucchevole balletto elettorale, stracolmo di improperi agli avversari (basti pensare all’UDC di Casini accusata, sia da destra che da sinistra, di praticare l’ambigua politica dei 2 o 3 forni, che in alcuni casi si allea a destra, in altri a sinistra e in altri ancora con nessuno dei due, perseguendo l’obiettivo di minare alla base questo pseudo-bipolarismo all’italiana) e di promesse più o meno strampalate (una per tutte è l’ultima boutade del ministro Brunetta, aspirante sindaco di Venezia, che per aiutare i giovani ad abbandonare la “sicura” casa materna vorrebbe offrire loro 500 euro, prelevandoli dai “ricchi” vitalizi dei pensionati, e non da quelli sicuramente più redditizi di politici, banchieri e manager…).
Tale balletto elettorale, così denso di questioni politicanti, è però, privo di analisi competenti sulla situazione del Paese e di proposte globali, capaci di affrontare le numerose problematiche e sfide che coinvolgono sempre più gli Italiani, quelli in Italia e quelli all’estero, gli Italiani “di sangue” e quelli di “nuova acquisizione”. Non si sente parlare molto di crisi economica e del carico di disoccupazione che essa si porta dietro. Anzi, qualche lungimirante esponente politico continua a ripetere come un mantra che “la crisi è finita” e che si potrebbe anche abbassare le tasse (solito specchietto per allodole in epoca elettorale), ma non ora perché la crisi non è ancora passata.
Nessuna voce si leva in favore delle migliaia di laureati italiani costretti ad andare all’estero per poter trovare “normali” possibilità di studio e di lavoro. Si parla spesso, invece, di riforma della scuola cavalcando l’idea, tutta leghista, che i “figli degli immigrati” sono i responsabili dell’attuale degrado. Viene così proclamata come soluzione ai problemi della scuola non l’impegno ad aumentare gli investimenti di persone e risorse, ma l’introduzione, dal prossimo anno scolastico, del “tetto del 30%” di stranieri in una classe italiana. Sembra una proposta di buon senso: in fondo che male c’è a non volere “classi ghetto”? Non è utile a tutti che le classi siano miste e che ci sia una corretta proporzione tra italiani e stranieri? In questo modo non si favorisce il proficuo processo di apprendimento di tutti? Sembra. Ma se andiamo un po’ più a fondo nella questione ci accorgiamo che il rimedio proposto è più problematico della situazione presente.
Infatti, se il “tetto” si riferisce agli alunni che non parlano italiano (a voce il ministro lo ha dichiarato, ma nella circolare non è esplicitato), tale indicazione era già presente nelle precedenti circolari scolastiche. Se invece si parla di alunni stranieri in genere, la proposta è di dubbia concezione ed applicazione. Gli stessi dati del ministero dell’istruzione (www.pubblica.istruzione.it/mpi/pubblicazioni/index.shtml) indicano che, in Italia, le situazioni di forte concentrazione di alunni stranieri in una sola classe o in una sola scuola sono ridotte: il dato nazionale medio è di 7 allievi stranieri ogni 100, anche se ci sono realtà con percentuali più alte, come Milano col 20%.
Inoltre, su 862.453 minori stranieri o figli di immigrati in Italia al primo gennaio 2009, la maggior parte di essi (519 mila) è nata in Italia e rappresenta la parte più consistente dei 629 mila alunni stranieri (vale a dire il 6,4% della popolazione scolastica complessiva) che nell’anno scolastico 2008-09 hanno frequentato le classi italiane. La maggioranza di questi alunni, la cosiddetta seconda generazione, ha in comune con i ragazzi italiani la stessa scolarizzazione, parla la stessa lingua, ha gusti ed interessi simili ai coetanei italiani. Non presenta problematiche scolastiche diverse dagli studenti italiani. Li rende diversi, spesso, il colore della pelle, la religione, l’origine.
Lo stesso ministero dell'Istruzione ha calcolato che i minori neo-arrivati, quelli che non parlano italiano, sono il 10% del totale ogni anno, ma se questo è vero, allora il problema del tetto non esiste... visto che già in passato le circolari scolastiche invitavano a non mettere i non italofoni tutti nella stessa classe.
Altra questione spinosa, legata alla proposta del tetto del 30%, è come si può rispettare questa percentuale in quartieri in cui la presenza degli immigrati è molto alta. Di fatto, le scuole a grande percentuale di stranieri nascono in quei quartieri dove vive realmente il 90% di immigrati e da dove gli italiani sono andati via. Si può forse costringere gli italiani a mandare i figli a scuola in quartieri che hanno volutamente abbandonati? Oppure si pensa di poter prelevare i figli degli immigrati per distribuirli in scuole lontane da casa?
E questo senza considerare il fatto che in alcuni piccoli comuni c'è un'unica scuola che resta aperta solo perché sono arrivati i bambini stranieri. Come si applicherebbe in questo caso il “tetto”? E come si applicherebbe il “tetto” alle scuole superiori, quando i ragazzi stranieri spesso scelgono istituti professionali, alberghieri o turistici? A Milano, per esempio, ci sono un paio di istituti dove la presenza di immigrati è del 70-80%. Cosa decidere, allora, di tali situazioni?
Ecco come una dichiarazione che “sembra” sensata rivela tutta la sua dose di improvvisazione e di approssimazione perché ispirata non tanto alla ricerca di soluzioni giuste e condivise, ma all’identificazione di presunti “capri espiatori” da gettare in pasto all’opinione pubblica.
E’ quanto accaduto dopo i fatti di Rosarno. E’ quanto continua ad accadere. Oggi stesso, il Presidente del Consiglio Berlusconi, dopo aver tenuto a Reggio Calabria un consiglio dei ministri anti-mafia, non ha potuto trattenersi di sparare sugli immigrati, affermando che riducendo gli immigrati clandestini extracomunitari si riduce automaticamente la criminalità in Italia.
Anche questa, che sembrerebbe una dichiarazione evidente, scontata, di buon senso, in realtà non sortisce altro effetto che alimentare la diffidenza, la paura e l’odio degli italiani verso quegli immigrati di cui vogliamo solo le braccia (e non il cuore ed i sentimenti), possibilmente a poco prezzo. Il tutto naturalmente infischiandosene della realtà dei fatti che, secondo l’Istat, ribadiscono che il tasso di criminalità degli immigrati regolari, in Italia, è simile a quello degli italiani. E anche se è vero che la stragrande maggioranza (70-80% circa) dei reati commessi da stranieri in Italia è opera di immigrati irregolari, i dati dovrebbero essere letti con attenzione perché, sul totale delle denunce, l'87% riguarda proprio la mera condizione di clandestinità (ed è quindi conseguenza della “lungimirante” legislazione di questo governo leghista): il reato commesso da 4 stranieri su 5 denunciati riguarda infatti l'essere stati sorpresi in Italia senza permesso di soggiorno e dunque la violazione delle leggi sull'immigrazione.
Ma in politica non conta la realtà, bensì la sua rappresentazione più o meno veritiera. Ed ecco che, come in passato siamo stati testimoni del fatto che in campagna elettorale i politici a corto di argomenti preferiscono distrarre l’opinione pubblica stigmatizzando gli immigrati, per nostra sfortuna e di tutto il Paese questa prassi sembra destinata a segnare negativamente anche la prossima tornata elettorale.

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