sabato, aprile 03, 2010
del nostro collaboratore Bartolo Salone

E’ la Pasqua del Signore, il giorno in cui la Chiesa celebra in modo particolarmente solenne (visto che per noi cristiani in realtà è pasqua ogni domenica) l’evento fondante della nostra fede, la vittoria di Cristo crocifisso sulla morte mediante la sua Resurrezione. E’ questo l’evento che dà senso alla nostra vita di credenti, l’evento che getta luce sullo scandalo dell’umana sofferenza: infatti, senza la risurrezione la stessa Croce non avrebbe alcun significato e diverrebbe il simbolo della sconfitta non di un solo Uomo ma di tutti gli uomini, schiacciati sotto il peso di un comune destino di dolore e di morte. Senza la risurrezione, non ci sarebbe rimedio per le ingiustizie subite e non avrebbe neppure senso la lotta per la Verità, specie quando è la stessa Verità a chiederci il sacrificio della vita. Verità e Speranza, attraverso la Resurrezione, si fondono in un tutt’uno e la Verità stessa del Vangelo dimostra di essere una verità che dona la vita e non una verità che la toglie, come spesso sono le finte verità di questo mondo.

Ma la resurrezione di Gesù può avere un valore salvifico per noi tutti, quale anticipazione e pegno della nostra futura resurrezione, solo a condizione che non sia considerata il prodotto della fantasia di uomini visionari, bensì un avvenimento realmente accaduto, di cui sia possibile cogliere le tracce nella storia. Invero, non sono mancati tentativi, da parte soprattutto di quella esegesi biblica che più è legata alle correnti filosofiche del razionalismo moderno (mi riferisco in particolare alla scuola c. d. “storico-critica”), volti a ridurre i racconti neotestamentari della Resurrezione a pie leggende elaborate dalla comunità cristiana primitiva. Sicché, con totale ribaltamento rispetto alla prospettiva tradizionale, non la Resurrezione, come evento reale, avrebbe dato impulso alla costituzione della comunità, bensì la comunità già formata si sarebbe inventata la Resurrezione per poter sopravvivere alla delusione degli eventi della Passione. Una simile lettura però non regge al vaglio di un esame più approfondito, essendo fondata più su un pregiudizio di tipo razionalista (quello per cui i miracoli non possono esistere, per cui i passi biblici relativi ai miracoli devono necessariamente essere frutto dell’inventiva della comunità credente) che su un sereno esame dei testi valutati nel contesto storico in cui si sono formati.

Il primo dato da cui prendere le mosse è che l’annuncio della resurrezione di Cristo costituisce il nucleo più antico della predicazione cristiana. Ce ne dà testimonianza san Paolo nella sua lettera ai Corinzi (scritta nel 56 d. C.), allorché afferma: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1Cor 15, 3-5). Se san Paolo scrive nel 56, è chiaro che la tradizione orale a cui si riferisce è anteriore. Dunque, la certezza nella risurrezione di Gesù si formò pochissimo tempo dopo la sua morte (avvenuta intorno al 30), quando una comunità organizzata di credenti non esisteva ancora. I sostenitori della tesi “mitologica” dovrebbero quindi spiegarci le ragioni di una tale singolarità, visto che la formazione di miti e leggende normalmente richiede tempi più lunghi, passando attraverso periodi di “strutturazione” e di “ristrutturazione”, dato che ogni generazione sovente rielabora il mito mediante l’aggiunta di elementi nuovi. Invece, la credenza nella risurrezione di Cristo appare ben delineata nel suo nucleo definitorio fin dall’origine pur in mancanza di una comunità credente stabilmente organizzata e senza andare incontro a sostanziali aggiornamenti negli anni a seguire.

Ad ogni modo, ancor più significativo è quanto san Paolo continua a scrivere nella stessa lettera: “In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti” (1Cor 15, 6). Testimoni oculari delle apparizioni del Risorto non sarebbero stati soltanto gli apostoli, ossia il gruppo ristretto degli “intimi” con cui Gesù aveva condiviso la sua missione sulla terra, bensì più di cinquecento persone in una volta sola, molte delle quali, essendo ancora viventi nel tempo in cui Paolo scrive (il 56 d. C. come sopra ricordato), avrebbero potuto facilmente smentirlo ove la storia delle apparizioni fosse stata una pia invenzione.

Ma conferma ancora più eloquente della veridicità dei racconti delle apparizioni del Risorto ci viene dagli stessi Vangeli, i quali concordemente narrano come le prime destinatarie dell’annuncio della resurrezione ad opera di strani personaggi, qualificati talora come angeli, talaltra come uomini in bianche vesti o Gesù stesso sotto mentite spoglie, furono delle donne, cioè persone che secondo l’antico diritto semita non avevano capacità di testimoniare (vigendo allora, per le donne, una sorta di presunzione legale di inattendibilità). Come si spiega – sempre nella prospettiva dell’elaborazione immaginifica – che il primo annuncio della Risurrezione, quello da cui dipende l’intera struttura della fede, venga affidato a delle donne, cioè a testimoni considerati all’epoca inattendibili e, di conseguenza, destinati a non essere creduti?Tuttavia, prescindendo del tutto da questi rilievi storico-esegetici, qualche studioso di storia antica, ha avanzato l’ipotesi che i racconti neotestamentari della risurrezione di Gesù altro non sarebbero che una rielaborazione di analoghi miti classici di ritorno in vita “post mortem”, come quello di Admeto e Alcesti o di Orfeo ed Euridice. Una simile ipotesi viene prospettata in termini eccessivamente apodittici per poter essere seriamente accettata: gli scritti neotestamentari sulla Risurrezione sono di origine apostolica ed è obiettivamente da escludere che gli apostoli, i quali erano persone di provincia e di umile estrazione sociale, avessero una cultura classica e una sensibilità eclettica tale da cimentarsi in una sì imponente opera di rielaborazione di mitologie pagane. Comunque, anche a voler ammettere per assurdo che fra la cerchia dei primi discepoli vi fossero dei fini conoscitori della cultura greco-ellenistica, bisogna considerare che la mitologia classica forniva dei modelli molto distanti rispetto alla concezione cristiana della risurrezione e, quindi, difficilmente utilizzabili ai fini della elaborazione fittizia di un racconto di resurrezione del Cristo. Infatti, analizzando attentamente i miti sopra accennati, ci si avvede come più che di risurrezione in senso proprio dovrebbe parlarsi per i protagonisti di risveglio o di “rianimazione”, giacché i corpi degli interessati (che recuperano i sensi grazie all’intervento della divinità interpellata) non sono morti per davvero, ma sono solo privi di sensi. Ad ogni modo, questi ed altri esempi di “risurrezione” che troviamo nel mondo pagano non riguardano le divinità (per definizione immortali), ma i mortali. Cristo, invece, è un Dio che muore e che risorge, cosa impensabile per la cultura greco-orientale e “follia per i pagani” (come è costretto ad ammettere san Paolo dopo aver sperimentato la derisione dei cittadini ateniesi, riuniti nell’Areopago, a cui il santo aveva cercato di esporre la nuova dottrina cristiana della resurrezione dei morti).

Altrettanto arduo appare ipotizzare una derivazione della credenza nella resurrezione di Cristo dalla religione ebraica: al suo interno vi erano sì delle correnti (come quella dei farisei) che ammettevano la resurrezione dei morti, ma la resurrezione del Messia era una cosa impensabile. Infatti, nella concezione escatologica all’epoca dominante, il Messia, il cui avvento glorioso avrebbe segnato la fine dei tempi, non era destinato, a conoscere la sofferenza e la morte. Invece Gesù, che per i cristiani è il Messia di cui parlano le antiche profezie bibliche, non solo va incontro alla persecuzione e alla morte, ma addirittura risorge quando nessuno sarebbe potuto risorgere, cioè prima della fine del mondo. Una Risurrezione inattesa e fuori “contesto”, dunque. Quale ebreo, visto che i primi discepoli di Gesù erano ebrei osservanti, avrebbe inventato una storia così stravagante e soprattutto dato la propria vita per una dottrina che agli occhi dei contemporanei (e ai loro stessi occhi in un primo momento) dovette apparire estremamente ridicola?

In verità, se degli ebrei osservanti hanno trovato più facile modificare le convinzioni in cui erano profondamente radicati fino al punto da operare una rilettura delle stesse Scritture alla luce degli eventi cui avevano assistito stando accanto a Gesù, è perché qualcosa di veramente strabiliante deve essere accaduto in quel sepolcro rimasto inspiegabilmente vuoto dalle prime luci del giorno dopo il sabato. Sepolcro che a distanza di due millenni continua a far parlare di sé.

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