venerdì, maggio 20, 2011
Il nostro corrispondente a Londra Renato Zilio ci racconta la grande festa della comunità filippina

“Figurarsi, monsignore, sarebbe una meraviglia!” aveva reagito padre Jake, sorpreso e sorridente con tutto il tondo del suo viso dai tratti somatici tra il filippino e il malesiano. Era una bella scommessa. E ciò rispondeva all’entusiasmo del vescovo irlandese Patrick Lynch - tutto interiore il suo - di aver celebrato la festa del Santo Niño nella nostra parrocchia scalabriniana di Londra. Proponeva, perciò, di farla l’anno successivo direttamente in Cattedrale. Quest’anno, infatti, l’appuntamento era proprio nell’antica Cattedrale cattolica di St. Georges.



Bishop Patrick, come responsabile delle comunità migranti, aveva già vissuto questa festa religiosa laggiù nelle Filippine, rimanendone sconvolto, anzi trasformato. “Una cosa magnifica, che tripudio di gente da tutte le isole!” ripeteva. Sì, quando laggiù un popolo si solleva, è veramente tutto un popolo che si solleva. Anche se le radici di questa festa provengono dalla Spagna. Magellano, infatti, arrivato all’isola di Cebu nell’aprile del 1521 proponeva al re di stringere un patto con la Spagna di Carlos I e di farsi battezzare insieme a tutto il suo popolo. Così fu. Prese il nome cristiano di Carlos e la moglie Joana, mentre come segno di alleanza il navigatore portoghese fece dono alla regina di una statuetta di Gesù Bambino: culto che si diffuse rapidamente in ogni isola insieme alla fede cristiana.

Vari miracoli sono attribuiti al Santo Niño e migliaia sono i devoti da tutte le isole che partecipano alla sua festa religiosa. Il santo Bambino è un esempio di umiltà, tocca il cuore e adorna tutte le case dei filippini, i negozi, gli uffici e perfino i mezzi pubblici. È una presenza discreta, ma potente.

Quest’anno da tutta Londra, con il magico passa-parola tra filippini, ci si ritrovava in un migliaio nella grande chiesa cattolica. C’era anche qualche inglese, perchè, cosa normale in questa metropoli, qualcuno del posto mette su famiglia volentieri con una filippina. Anche il nostro seminarista brasiliano se lo sentiva richiedere, mentre cantava un ritornello in tagalog: “Hai anche tu sposato una filippina?” Nel suo candore, era rimasto proprio sorpreso di fronte a un’idea così originale...

Ma a metà della celebrazione si scatenava un rullio di tamburi e la processione danzante del santo Niño - chiamata sulog, dal movimento dell’acqua corrente - prendeva inizio. Due passi avanti e uno indietro, vibrando rapidissimamente in aria la statuetta tra ritmi febbricitanti, fruscii e sussurri in tagalog. Suggestiva, mistica e trascinante. Centinaia di filippini si mettevano in coda alla processione, presentando sopra le mani giunte la loro statuetta, fatta in tutte le fogge, per essere benedetta dal vescovo. Un tripudio mai visto. Uno spaccato dell’anima credente di un popolo lontanissimo per geografia e cultura.

Seguiva, poi, nelle sale del vescovado un lungo tempo di lunch fraterno con animazione di danze dai costumi tradizionali. In realtà, una preziosa occasione per presentare su un vassoio d’argento una cultura popolare e la sua espressione di fede. Era straordinario per i nostri migranti, tra i 25.000 filippini presenti in terra inglese, provare così un senso di dignità e di onore per le proprie radici. Questa visibilità, infatti, per un popolo diverso in una cattedrale cattolica immersa nel mondo anglicano, si rivela essenziale per costruire la comunione. Per la nostra Chiesa è dire la propria universalità e una vera “cattolicità”. Oltre a una riconoscenza per una comunità di migranti che nell’invisibilità vissuta ogni giorno matura lentamente una nuova società. Quella di domani.

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