E’ stato svelato il mistero della blogger Amina Abdallah Araf, diventata icona dei diritti gay in Siria e dal cui caso si è riaccesa la polemica sul modo di fare informazione. Attivista e dissidente, era stato lanciato l’allarme del suo rapimento e diffusa la sua foto in tutta la rete: ma Amina non è mai esistita e le foto divulgate appartengono a una donna croata di nome Jelena Lecic prese dal suo profilo Facebook.
Trentasei anni, mulsulmana, cresciuta in America, a febbraio apre un blog, “A gay girl in Damascus”, in cui scriveva dei suoi innamoramenti e del fatto che nel suo paese d’origine l’omosessualità è illegale, poi rapita perché perseguitata dal regime di Assad per le sue contestazioni: la sua storia è stata resa pubblica dal "The Guardian", che l’aveva addirittura intervistata ad aprile tramite email. Nessuno, pare, l’aveva mai vista di persona, così cominciano a sorgere dubbi sulla sua reale esistenza e la sua storia diventa un vero e proprio e giallo con finale a sorpresa: era tutto un bluff.
Pensiamo a cosa sia passato nella mente del giornalista che l’ha intervistata sapendo, oggi, che in realtà Amina era Tom MacMaster, attivista sì ma uomo e sostenitore della causa palestinese che aveva finto di essere Amina: la storia termina con una lettera dell’uomo in cui si scusa dell’inganno. La motivazione? Il quarantenne, studente all’università di Edimburgo, voleva esplorare i confini tra finzione e realtà.
Certo la domanda adesso che tutti si pongono è: se domani ci fosse una vera Amina rapita e in pericolo, le sarà dato il beneficio del dubbio? E soprattutto dato la risonanza della rete nell’attivismo, crederemo ancora che qualcuno sia veramente in pericolo? Sono state le ricerche del Washington Post, della radio pubblica americana (Npr) e di un sito filopalestinese (Electronic Intifada) a far emergere una realtà diversa da quella che era stata raccontata e che aveva scosso l’opinione pubblica.
Di oggi è invece la notizia dell’identità svelata di Paula Brookers, pseudo-autrice di un sito lesbico “Lez Get Ral”, che in realtà era Bill Graber. Il dubbio è sorto proprio dal caso di Amina: i reporter del Washington Post interessati al caso, dopo aver chiesto di parlare al telefono (la blogger disse di essere sorda), hanno scoperto la menzogna, così l’uomo ha dovuto ammettere di essere semplicemente un muratore di 58 anni che avrebbe usato il nome della moglie per essere preso sul serio.
Tante le domande che si aprono quindi sul modo di fare informazione e su come verificare le fonti, ma viene soprattutto da chiedersi: bravi loro a mentire o creduloni i giornalisti?
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Pensiamo a cosa sia passato nella mente del giornalista che l’ha intervistata sapendo, oggi, che in realtà Amina era Tom MacMaster, attivista sì ma uomo e sostenitore della causa palestinese che aveva finto di essere Amina: la storia termina con una lettera dell’uomo in cui si scusa dell’inganno. La motivazione? Il quarantenne, studente all’università di Edimburgo, voleva esplorare i confini tra finzione e realtà.
Certo la domanda adesso che tutti si pongono è: se domani ci fosse una vera Amina rapita e in pericolo, le sarà dato il beneficio del dubbio? E soprattutto dato la risonanza della rete nell’attivismo, crederemo ancora che qualcuno sia veramente in pericolo? Sono state le ricerche del Washington Post, della radio pubblica americana (Npr) e di un sito filopalestinese (Electronic Intifada) a far emergere una realtà diversa da quella che era stata raccontata e che aveva scosso l’opinione pubblica.
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