del nostro redattore Renato Zilio
Mi chiedo a volte “ma chi è nel contesto di oggi un missionario scalabriniano? una missione per emigranti?!” È vero. Stimolati da una maggiore familiarità con la Chiesa locale e da nuovi appelli del mondo dell’emigrazione ultimamente vi è come una comprensione nuova della presenza ecclesiale del missionario. O della missione.Ed è una presenza nell’ambito della Chiesa locale di un carisma particolare, essenziale, ambivalente. Potremmo chiamarlo allo stesso tempo il carisma della comunione e della differenza o dell’alterità. Esso tiene insieme, in fondo, queste due differenti componenti: la comunione di un insieme di persone senza annullare la loro identità. Senza soffocare la loro originalità in un contesto più ampio. Senso della relazione comunionale, ma anche senso dell’alterità e del suo rispetto.
Il profilo del missionario è decisivo, strategico. Non potrà essere, infatti, un comandante. Dotato di volontà, di decisionalità, di idee chiare e personali, si imporrà al sentire comune per definire e trasmettere il suo preciso volere, ma... farà in pezzi la sua missione.
Il suo profilo è più consono al ruolo del direttore di orchestra. Per quest’ultimo infatti il suo stesso esistere è di creare come risultato l’unità, la comunione. La risultante della sua azione è l’armonia dell’insieme, dei suoi componenti, il gioco di squadra nell’originalità di ognuno. Si preoccuperà di far emergere il suono più tenue e di temperare quello più acceso. La voce di ognuno, anche minoritaria, si farà importante, necessaria all’unità. Il suo stile non sarà impositivo, ma concertante. Ed è la passione del “mettere insieme” comunionale che vivrà nella discrezione della sua personalità. Sì, perchè il direttore d’orchestra si vede sempre... di spalle, di faccia di vedono soltanto i suonatori!
Nell’humilitas del suo servizio il missionario si farà in questo modo “tutto a tutti”. Una passione questa che lo anima profondamente in una dinamica pasquale di morte e di vita, che egli accetta volontariamente.
Il direttore d’orchestra è generalmente polivante. Conosce e sa suonare molti strumenti della sua orchestra. Il missionario dovrebbe già vivere in lui stesso molteplici appartenenze: non essere di parte, ma uomo universale.
Nell’ambito della riscoperta del carisma del missionario degli emigrati come carisma della comunione e dell’alterità, il nostro atteggiamento pastorale nei riguardi dei migranti sarà chiamato ad evolvere. Per passare dall’atteggiamento possessivo di una madre a quello più strutturante e responsabilizzante di padre.
La madre, infatti, tiene stretti a sè i suoi nel calore materno, protettivo, altamente identitario e di appartenenza. Essa dà il latte, cioè dà se stessa. Ed è il principio dell’identico che vi è determinante.
Il ruolo del padre, invece, è quello di dare delle norme comportamentali, dei punti di riferimento o dei valori di una cultura familiare e di spingere fuori dal nido il figlio. Perchè affronti la società, prenda coscienza della sua identità familiare e della sua responsabilità di adulto, di fronte e insieme all’alterità degli altri in un contesto differente, complesso e plurale.
Il padre fa gustare il vino, cioè la convivialità inebriante, la fiducia, la corresponsabilità, il vivre-ensemble.
Il figlio dovrà portare alto il nome di famiglia, all’interno, tuttavia, di una società che esige un gioco interattivo di relazioni, di contatti, di contrasti e di alleanze. Ed è il principio di alterità che costringe ad uscire da se stessi e stabilire ponti di comunicazione o di comunione nuovi e originali.
Il missionario sarà sempre più chiamato ad esplicitare questa vocazione eminente: dal raccogliere intorno a sè all’accompagnare i “suoi” migranti e la “sua” comunità all’incontro, al confronto, alla solidarietà con altri migranti, con altre comunità. Per cui il suo carisma missionario della comunione e della differenza esigerà un chiaro impegno interculturale, interreligioso, intercomunitario, necessariamente.
Il primissimo incontro con l’alterità in questo cammino di padre e di pastore sarà con la Chiesa locale a cui la comunità appartiene in maniera vitale, ecclesiale. In un reciproco atteggiamento di receptio, di accoglienza reciproca. Ed è ancora là dove si manifesterà il carisma della comunione e, al tempo stesso, della differenza. Anche se una grande missione seguirà con “naturalezza pericolosa” la tendenza a chiudere e a chiudersi in sè, con quella dinamica di ritorno all’origine, alla maternità. Come una madre che considera il figlio ormai fattosi grande, adulto - ricco di un’esperienza interculturale vissuta - ancora il suo piccolo di una volta!
Ed è il normale atteggiamento deresponsabilizzante di una madre troppo legata (o legante) ai figli. Il centro di gravità non sarà messo – come nel caso del padre – nell’incontro e nello scambio con l’alterità dell’altro, ma in se stessa!
Il missionario imparerà a comprendere che la sua comunità è già un popolo nuovo. Un popolo adulto, ricco di un’esperienza di aperture e di relazioni nuove vissute giorno per giorno. Già nel quartiere, al lavoro e perfino in famiglia, sperimentando contatti, esperienze vive di incontro, nuove solidarietà con altri, differenti, che lo hanno fatto crescere e aprirsi all’altro...
E sarà vitale celebrare tutto questo quando ci si ritrova insieme, alla missione italiana, portoghese o filippina... invece di lasciar cadere tutto ciò che ci ha fatto vivere per rientrare nel seno materno, nella propria ipsissima cultura. Dimenticando quel lungo passaggio del deserto dell’emigrazione che ha saputo trasformare uomini e cose e dare il senso che l’avvenire non è altro che l’incontro dell’altro, di altri migranti, di altre comunità. Avvenire che in parte si sta già realizzando, proprio sotto i nostri occhi!
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