Misure di custodia cautelare revocate per Rosario Marando, imputato per associazione mafiosa nel processo Minotauro e per omicidio nel processo riaperto a Torino per l’uccisione, nel 1997, di Antonio e Antonino Stefanelli e Francesco Mancuso
Liberainformazione - La testimone di giustizia Maria Stefanelli ha espresso grande preoccupazione per un provvedimento da parte dei giudici che non solo la inquieta per la sua incolumità, ma che la delude per il merito delle motivazioni espresse. Ecco il parere del suo legale, Cosima Marocco.
Avvocato Marocco, la sua assistita ha manifestato un forte sconcerto per la scarcerazione di Rosario Marando. Come commenta il comportamento di Marando alle udienze del processo Stefanelli e Minotauro?
Condivido pienamente lo sconcerto della mia assistita in quanto Rosario Marando avrebbe dovuto finire di scontare una condanna definitiva nell’aprile 2014 ed era, fino al mese scorso, sottoposto a misura cautelare nel processo Minotauro, mentre oggi è praticamente libero, soggetto soltanto alla misura dell’obbligo di firma quotidiano. Dopo la deposizione della mia assistita nel processo per l’omicidio degli Stefanelli, di Mancuso e di Romeo e, successivamente, nel processo Minotauro, l’imputato ha iniziato a tenere un atteggiamento fortemente intimidatorio e screditante nei suoi confronti. Questo comportamento prova che la testimonianza della Stefanelli è ritenuta importante e preoccupa la famiglia Marando, ma ciò costituisce anche un serio pericolo per la sua incolumità. Sono molto preoccupata.
Le dichiarazioni di Maria Stefanelli nelle motivazioni addotte dai giudici del tribunale vengono decisamente ridimensionate. Come commenta la decisione?
La testimonianza resa nel processo Minotauro dalla Stefanelli ha offerto uno spaccato di vita vissuta delle donne appartenenti alle famiglie di ‘ndrangheta. È stato consentito ai Giudici di udire dalla voce di una di queste donne come si viva di obbedienza e silenzio all’interno di queste famiglie. Le donne sono perfettamente al corrente degli illeciti commessi dagli uomini, senza mai prendervi parte direttamente, perché ciò non è loro consentito. Il loro ruolo è quello di testimoni mute e silenziose, ma hanno orecchie per sentire e occhi per vedere. I giudici che hanno ridimensionato la sua testimonianza perché, in quanto donna, non ha partecipato direttamente ad affiliazioni o altri illeciti, non hanno compreso appieno cosa significa nascere e crescere nella ‘ndrangheta, dove le donne, benché considerate trasparenti, sono ben presenti: osservano ogni cosa e, soprattutto, ricordano.
La sua cliente ha espresso forti critiche su quella che teme essere una mancanza di comprensione del fenomeno. Lei che ha assistito alcuni pentiti in importanti processi torinesi, come considera questo sentore? Dal suo osservatorio di avvocato, come si lavora a Torino sui temi di mafia?
A Torino negli anni 80 e 90 si sono tenuti due importanti processi alla malavita organizzata: dapprima quello al cosiddetto “clan dei catanesi” e poi il celebre processo “Cartagine”. Concluso quel periodo, però, si è pensato che la mafia a Torino fosse stata debellata o quantomeno indebolita, sottovalutando, invece, avesse già permeato il tessuto sociale, imprenditoriale e politico del nostro territorio. Negli ultimi 20 anni si è data la priorità a indagini su reati che costituivano una evidente emergenza sociale, come lo spaccio di droga e lo sfruttamento della prostituzione, per lo più gestiti da stranieri. La mafia e la ‘ndrangheta hanno continuato a lavorare in silenzio, come è loro costume per non attirare su di sé l’attenzione dell’autorità giudiziaria. È ora che si ammetta che la mafia è un fenomeno diffuso dalla Valle d’Aosta alla Sicilia e che i magistrati collaborino e vengano formati e specializzati in quest’ottica, altrimenti il lavoro di quei pochi, coraggiosi e illuminati inquirenti che hanno capito la natura delle organizzazioni criminali equivarrà a quello di chi vuota il mare con cucchiaio.
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Avvocato Marocco, la sua assistita ha manifestato un forte sconcerto per la scarcerazione di Rosario Marando. Come commenta il comportamento di Marando alle udienze del processo Stefanelli e Minotauro?
Condivido pienamente lo sconcerto della mia assistita in quanto Rosario Marando avrebbe dovuto finire di scontare una condanna definitiva nell’aprile 2014 ed era, fino al mese scorso, sottoposto a misura cautelare nel processo Minotauro, mentre oggi è praticamente libero, soggetto soltanto alla misura dell’obbligo di firma quotidiano. Dopo la deposizione della mia assistita nel processo per l’omicidio degli Stefanelli, di Mancuso e di Romeo e, successivamente, nel processo Minotauro, l’imputato ha iniziato a tenere un atteggiamento fortemente intimidatorio e screditante nei suoi confronti. Questo comportamento prova che la testimonianza della Stefanelli è ritenuta importante e preoccupa la famiglia Marando, ma ciò costituisce anche un serio pericolo per la sua incolumità. Sono molto preoccupata.
Le dichiarazioni di Maria Stefanelli nelle motivazioni addotte dai giudici del tribunale vengono decisamente ridimensionate. Come commenta la decisione?
La testimonianza resa nel processo Minotauro dalla Stefanelli ha offerto uno spaccato di vita vissuta delle donne appartenenti alle famiglie di ‘ndrangheta. È stato consentito ai Giudici di udire dalla voce di una di queste donne come si viva di obbedienza e silenzio all’interno di queste famiglie. Le donne sono perfettamente al corrente degli illeciti commessi dagli uomini, senza mai prendervi parte direttamente, perché ciò non è loro consentito. Il loro ruolo è quello di testimoni mute e silenziose, ma hanno orecchie per sentire e occhi per vedere. I giudici che hanno ridimensionato la sua testimonianza perché, in quanto donna, non ha partecipato direttamente ad affiliazioni o altri illeciti, non hanno compreso appieno cosa significa nascere e crescere nella ‘ndrangheta, dove le donne, benché considerate trasparenti, sono ben presenti: osservano ogni cosa e, soprattutto, ricordano.
La sua cliente ha espresso forti critiche su quella che teme essere una mancanza di comprensione del fenomeno. Lei che ha assistito alcuni pentiti in importanti processi torinesi, come considera questo sentore? Dal suo osservatorio di avvocato, come si lavora a Torino sui temi di mafia?
A Torino negli anni 80 e 90 si sono tenuti due importanti processi alla malavita organizzata: dapprima quello al cosiddetto “clan dei catanesi” e poi il celebre processo “Cartagine”. Concluso quel periodo, però, si è pensato che la mafia a Torino fosse stata debellata o quantomeno indebolita, sottovalutando, invece, avesse già permeato il tessuto sociale, imprenditoriale e politico del nostro territorio. Negli ultimi 20 anni si è data la priorità a indagini su reati che costituivano una evidente emergenza sociale, come lo spaccio di droga e lo sfruttamento della prostituzione, per lo più gestiti da stranieri. La mafia e la ‘ndrangheta hanno continuato a lavorare in silenzio, come è loro costume per non attirare su di sé l’attenzione dell’autorità giudiziaria. È ora che si ammetta che la mafia è un fenomeno diffuso dalla Valle d’Aosta alla Sicilia e che i magistrati collaborino e vengano formati e specializzati in quest’ottica, altrimenti il lavoro di quei pochi, coraggiosi e illuminati inquirenti che hanno capito la natura delle organizzazioni criminali equivarrà a quello di chi vuota il mare con cucchiaio.
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