L’Egitto ha un nuovo governo. Ieri il giuramento della squadra guidata dal premier, Hazem al-Beblawi, e composta da 34 ministri, nessuno appartenente ai Fratelli Musulmani che, dal canto loro, chiedono all’Ue di indagare sul “golpe militare”.
Radio Vaticana - Nell’esecutivo appaiano, infatti, tre donne, tre copti, diversi tecnici ma nessun islamista. Nella notte, intanto, sono ripresi gli scontri tra sostenitori dell’ex presidente Morsi e le forze dell’ordine: due i morti e oltre 400 gli arresti. Sulle prospettive e le sfide che attendono il nuovo esecutivo Marco Guerra ha intervistato Silvia Colombo, ricercatrice dell'Istituto Affari Internazionali: ascolta
R. - Il fatto che sia stato creato questo governo a distanza di poco tempo dalla caduta di Morsi, è un buon segnale che indica che il Paese comunque deve andare avanti e che appunto c’è la voglia di farlo proseguire lungo il processo di transizione. Chiaramente, le incognite sono molteplici; in primo luogo, il fatto che il Paese è più polarizzato che mai. Continuano gli scontri, continuano i morti nelle strade e il dialogo tra le due parti in campo sembra non essere ancora decollato. Quindi tutto ciò avrà fortissime ripercussioni, soprattutto nel breve periodo, su quella che è la Road Map che dovrà essere implementata dal nuovo governo e sulle prospettive di stabilizzazione, di successo di questo governo. Sarà importante vedere anche quale impostazione verrà data a quella che è la domanda principale che continua a provenire dalla piazza, dagli attivisti, cioè la richiesta di maggiore inclusività, maggiore giustizia e chiaramente anche un miglioramento delle condizioni economiche.
D. - Che posizione avrà il nuovo esecutivo nei delicati equilibri del Medio Oriente? Si inserisce in una linea di continuità o avrà elementi di rottura?
R. - Il nuovo governo è composto principalmente da tecnici ed è molto incentrato su quelle che sono le condizioni e la situazione domestica del Paese. Si inserirà in una linea di continuità rispetto al governo precedente, anche perché la situazione nel Medio Oriente è, sì, molto convulsa, molto complicata, - soprattutto per quanto riguarda la questione siriana - ma l’Egitto aspira a rimanere un pilastro di stabilità nella regione. Gli attori esterni stanno cercando di puntellare il ruolo dell’Egitto in questa direzione: si pensi, per esempio, al ruolo dell’Arabia Saudita e degli altri Paesi del Golfo, ma si pensi anche al ruolo degli Stati Uniti, che comunque hanno confermato il loro sostegno ai militari e che quindi, di fatto, guardano verso la direzione di una continuità.
D. - L’esclusione dei Fratelli musulmani e dei salafiti non rischia di essere un messaggio molto pericoloso per l’anima più islamista del Paese?
R. - Ci si aspettava una maggiore apertura, una mano tesa nei confronti di quella parte della popolazione e della classe politica che si è sentita esclusa ed estromessa dal futuro politico dell’Egitto. Bisogna vedere, appunto, quali ripercussioni potrà avere questo fatto proprio a livello di crescente distanza tra le parti. Bisogna, inoltre, però ricordare che parallelamente alla formazione del nuovo governo, c’è anche questa iniziativa di riconciliazione nazionale, i cui termini che non sono ancora stati chiariti e la cui partecipazione non è ancora stata specificata, ma che potrebbe, in parallelo, cercando di ricostruire un clima di fiducia tra le parti della società e della politica egiziana, per poi favorire una reintromissione delle parti - in particolare la componente islamista - all’interno delle istituzioni di governo.
D. - I militari continueranno ad avere un ruolo preponderante nelle scelte della politica egiziana?
R. - Ci si può aspettare che continuino ad agire nell’ombra. Certamente rimarranno un po’ i portavoce e anche i baluardi di una stabilizzazione del Paese; quindi non è inopportuno aspettarsi ulteriori interventi - naturalmente non di tipo strettamente militare ma anche di interferenze sul governo civile - fino a quando si potrà arrivare ad un nuovo parlamento eletto e ad un nuovo presidente eletto; tutto questo in base alla Road Map che è stata presentata una decina di giorni fa.
Radio Vaticana - Nell’esecutivo appaiano, infatti, tre donne, tre copti, diversi tecnici ma nessun islamista. Nella notte, intanto, sono ripresi gli scontri tra sostenitori dell’ex presidente Morsi e le forze dell’ordine: due i morti e oltre 400 gli arresti. Sulle prospettive e le sfide che attendono il nuovo esecutivo Marco Guerra ha intervistato Silvia Colombo, ricercatrice dell'Istituto Affari Internazionali: ascoltaR. - Il fatto che sia stato creato questo governo a distanza di poco tempo dalla caduta di Morsi, è un buon segnale che indica che il Paese comunque deve andare avanti e che appunto c’è la voglia di farlo proseguire lungo il processo di transizione. Chiaramente, le incognite sono molteplici; in primo luogo, il fatto che il Paese è più polarizzato che mai. Continuano gli scontri, continuano i morti nelle strade e il dialogo tra le due parti in campo sembra non essere ancora decollato. Quindi tutto ciò avrà fortissime ripercussioni, soprattutto nel breve periodo, su quella che è la Road Map che dovrà essere implementata dal nuovo governo e sulle prospettive di stabilizzazione, di successo di questo governo. Sarà importante vedere anche quale impostazione verrà data a quella che è la domanda principale che continua a provenire dalla piazza, dagli attivisti, cioè la richiesta di maggiore inclusività, maggiore giustizia e chiaramente anche un miglioramento delle condizioni economiche.
D. - Che posizione avrà il nuovo esecutivo nei delicati equilibri del Medio Oriente? Si inserisce in una linea di continuità o avrà elementi di rottura?
R. - Il nuovo governo è composto principalmente da tecnici ed è molto incentrato su quelle che sono le condizioni e la situazione domestica del Paese. Si inserirà in una linea di continuità rispetto al governo precedente, anche perché la situazione nel Medio Oriente è, sì, molto convulsa, molto complicata, - soprattutto per quanto riguarda la questione siriana - ma l’Egitto aspira a rimanere un pilastro di stabilità nella regione. Gli attori esterni stanno cercando di puntellare il ruolo dell’Egitto in questa direzione: si pensi, per esempio, al ruolo dell’Arabia Saudita e degli altri Paesi del Golfo, ma si pensi anche al ruolo degli Stati Uniti, che comunque hanno confermato il loro sostegno ai militari e che quindi, di fatto, guardano verso la direzione di una continuità.
D. - L’esclusione dei Fratelli musulmani e dei salafiti non rischia di essere un messaggio molto pericoloso per l’anima più islamista del Paese?
R. - Ci si aspettava una maggiore apertura, una mano tesa nei confronti di quella parte della popolazione e della classe politica che si è sentita esclusa ed estromessa dal futuro politico dell’Egitto. Bisogna vedere, appunto, quali ripercussioni potrà avere questo fatto proprio a livello di crescente distanza tra le parti. Bisogna, inoltre, però ricordare che parallelamente alla formazione del nuovo governo, c’è anche questa iniziativa di riconciliazione nazionale, i cui termini che non sono ancora stati chiariti e la cui partecipazione non è ancora stata specificata, ma che potrebbe, in parallelo, cercando di ricostruire un clima di fiducia tra le parti della società e della politica egiziana, per poi favorire una reintromissione delle parti - in particolare la componente islamista - all’interno delle istituzioni di governo.
D. - I militari continueranno ad avere un ruolo preponderante nelle scelte della politica egiziana?
R. - Ci si può aspettare che continuino ad agire nell’ombra. Certamente rimarranno un po’ i portavoce e anche i baluardi di una stabilizzazione del Paese; quindi non è inopportuno aspettarsi ulteriori interventi - naturalmente non di tipo strettamente militare ma anche di interferenze sul governo civile - fino a quando si potrà arrivare ad un nuovo parlamento eletto e ad un nuovo presidente eletto; tutto questo in base alla Road Map che è stata presentata una decina di giorni fa.
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