Medicina preventiva esasperata o un approccio pragmatico? La decisione
di Angelina Jolie di sottoporsi a una doppia mastectomia fa discutere.
Non c’è dubbio: quella di Angelina Jolie è una scelta tosta, estrema e l’editoriale del New York Times in cui l’attrice cerca di spiegare le sue ragioni ha aperto un acceso dibattito da una parte all’altra dell’Atlantico. Radicalmente differenti le reazioni in Italia e negli Stati Uniti. Nel nostro paese ha suscitato incomprensione, disagio e perfino sdegno nell’opinione pubblica e una giudizio prevalentemente negativo da parte della comunità medica. Negli Stati Uniti invece, rispetto, messaggi di affetto e di ammirazione (Jamie Lee Curtis: “È un’eroina per molti, inclusa me”. Sheryl Crow:”Che coraggiosa!”) e preoccupazione da parte della comunità medica, ma solo per il rischio di diffondere informazioni parziali e incorrette e il timore (giustificato) che la decisione della Jolie possa scatenare una reazione a catena. Importantissimo specificare che le mutazioni genetiche in questione BRCA1 e BRCA2 sono responsabili - almeno negli Stati Uniti - soltanto del 5-10% dei tumori al seno e del 10-15% dei tumori alle ovaie. Anche i medici americani, come quelli italiani, fanno notare che questo tipo di mutazione è una condizione speciale e ad alto rischio: soltanto un numero esiguo di donne rientra in questa categoria. Ma la Jolie é una di queste donne e di fronte al dilemma 87% contro 5% (di tanto in questo caso possono scendere le probabilità di avere un tumore dopo la mastectomia) credo sia doveroso sospendere il giudizio e rispettare una decisione che deve rimanere fra paziente e dottore. Si è detto che questo è l’ennesimo caso di medicina preventiva esasperata, un’altra aberrazione del sistema sanitario americano sempre attento al portafogli (alla lunga i controlli ripetuti costano di più della mastectomia). Sí é detto che controlli ravvicinati e risonanze magnetiche ogni sei mesi accompagnati da terapia farmacologica sono un’alternativa valida e molto meno invasiva. Si fa notare che la diagnosi precoce con asportazione chirurgica, chemioterapia e radioterapia abbassa il rischio quanto la mastectomia.
Tutti però qui negli Stati uniti sono d’accordo: é una decisione squisitamente personale. “La scelta della Jolie è lontana dalla vita” ha detto Lella Costa, ma chi può arrogarsi il diritto di stabilire qual é la vita migliore? Per alcuni vivere sotto la spada di Damocle di controlli e risonanze magnetiche ogni sei mesi é uno stress troppo grande.
Ho ascoltato le testimonianze di donne che come la Jolie hanno optato per la mastectomia preventiva (per loro c’è già un nome: “Previvor” invece di “survivor”) e mi é sembrato di capire che c’é sì la tendenza a voler prevenire, controllare e battere sul tempo la malattia, ma anche un'ammissione dei propri limiti e della propria vulnerabilità: pragmatismo contro fatalismo. Trovo che questa sia una grande differenza di fondo fra Americani e Italiani. Durante ventidue anni di permanenza negli Stati Uniti mi sono sentita spesso in bilico e combattuta fra queste due visioni della vita e mai, come in decisioni mediche grandi e piccole, ho toccato con mano questo approccio diverso.
Il parere dei medici americani cui mi sono rivolta è spesso stato smentito, in seconda battuta, da quello della controparte italiana. Non credo che una scuola sia migliore dell’altra e la virtù come sempre sta nel mezzo. Ma “sapere é potere” e credo che più scelte una donna abbia a disposizione, meglio sia equipaggiata a intraprendere una battaglia individuale, dolorosa e personalissima come quella contro il tumore al seno.
Non c’è dubbio: quella di Angelina Jolie è una scelta tosta, estrema e l’editoriale del New York Times in cui l’attrice cerca di spiegare le sue ragioni ha aperto un acceso dibattito da una parte all’altra dell’Atlantico. Radicalmente differenti le reazioni in Italia e negli Stati Uniti. Nel nostro paese ha suscitato incomprensione, disagio e perfino sdegno nell’opinione pubblica e una giudizio prevalentemente negativo da parte della comunità medica. Negli Stati Uniti invece, rispetto, messaggi di affetto e di ammirazione (Jamie Lee Curtis: “È un’eroina per molti, inclusa me”. Sheryl Crow:”Che coraggiosa!”) e preoccupazione da parte della comunità medica, ma solo per il rischio di diffondere informazioni parziali e incorrette e il timore (giustificato) che la decisione della Jolie possa scatenare una reazione a catena. Importantissimo specificare che le mutazioni genetiche in questione BRCA1 e BRCA2 sono responsabili - almeno negli Stati Uniti - soltanto del 5-10% dei tumori al seno e del 10-15% dei tumori alle ovaie. Anche i medici americani, come quelli italiani, fanno notare che questo tipo di mutazione è una condizione speciale e ad alto rischio: soltanto un numero esiguo di donne rientra in questa categoria. Ma la Jolie é una di queste donne e di fronte al dilemma 87% contro 5% (di tanto in questo caso possono scendere le probabilità di avere un tumore dopo la mastectomia) credo sia doveroso sospendere il giudizio e rispettare una decisione che deve rimanere fra paziente e dottore. Si è detto che questo è l’ennesimo caso di medicina preventiva esasperata, un’altra aberrazione del sistema sanitario americano sempre attento al portafogli (alla lunga i controlli ripetuti costano di più della mastectomia). Sí é detto che controlli ravvicinati e risonanze magnetiche ogni sei mesi accompagnati da terapia farmacologica sono un’alternativa valida e molto meno invasiva. Si fa notare che la diagnosi precoce con asportazione chirurgica, chemioterapia e radioterapia abbassa il rischio quanto la mastectomia.
Tutti però qui negli Stati uniti sono d’accordo: é una decisione squisitamente personale. “La scelta della Jolie è lontana dalla vita” ha detto Lella Costa, ma chi può arrogarsi il diritto di stabilire qual é la vita migliore? Per alcuni vivere sotto la spada di Damocle di controlli e risonanze magnetiche ogni sei mesi é uno stress troppo grande.
Ho ascoltato le testimonianze di donne che come la Jolie hanno optato per la mastectomia preventiva (per loro c’è già un nome: “Previvor” invece di “survivor”) e mi é sembrato di capire che c’é sì la tendenza a voler prevenire, controllare e battere sul tempo la malattia, ma anche un'ammissione dei propri limiti e della propria vulnerabilità: pragmatismo contro fatalismo. Trovo che questa sia una grande differenza di fondo fra Americani e Italiani. Durante ventidue anni di permanenza negli Stati Uniti mi sono sentita spesso in bilico e combattuta fra queste due visioni della vita e mai, come in decisioni mediche grandi e piccole, ho toccato con mano questo approccio diverso.
Il parere dei medici americani cui mi sono rivolta è spesso stato smentito, in seconda battuta, da quello della controparte italiana. Non credo che una scuola sia migliore dell’altra e la virtù come sempre sta nel mezzo. Ma “sapere é potere” e credo che più scelte una donna abbia a disposizione, meglio sia equipaggiata a intraprendere una battaglia individuale, dolorosa e personalissima come quella contro il tumore al seno.
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