Dopo il tragico caso di Kal Kyi, madre di 4 figli che ha scelto il suicidio contro il dominio cinese, arriva la notizia della morte di Lhamo Kyab. Pechino continua a evitare l’apertura di un tavolo di dialogo con le autorità tibetane in esilio.
Dharamsala (AsiaNews) - A meno di 24 ore dalla tragica autoimmolazione di una madre tibetana, un altro caso di suicidio scuote la regione. Lhamo Kyab, 43 anni, si è dato fuoco poche ore fa nella regione di Tsoe per chiedere alla Cina vera libertà religiosa e il ritorno del Dalai Lama a Lhasa. Si tratta del quinto suicidio nella zona e il 111mo totale: nonostante la crisi non accenni a diminuire, Pechino continua a rispondere con il pugno di ferro.
Ieri è stata la volta di Kal Kyi, 30 anni e madre di quattro figli, che si è autoimmolata nei pressi del monastero Jonang, nel Tibet orientale. Tsengyang Gyatso, esule tibetano che proviene da quell'area, dice: "Il corpo è stato portato subito dentro il monastero per evitare che venisse preso dalla polizia". Per evitare proteste pubbliche, infatti, le autorità regionali tendono a portare via i corpi dei suicidi e negano loro la sepoltura religiosa.
Secondo una fonte anonima della contea di Dzamthang, la donna si è uccisa "per sottolineare la violenta politica cinese in Tibet". Più volte le autorità tibetane in esilio - politiche e religiose - hanno chiesto al governo centrale cinese di aprire un tavolo per gestire la situazione. Pechino ha preferito fino a ora emanare invece nuovi regolamenti che minacciano l'arresto immediato "per chi si auto-immola e per chi incita gli altri a farlo".
Kal Kyi è la 16ma donna che decide di uccidersi per la causa tibetana sin dal febbraio del 2009, quando la crisi interna al Tibet ha raggiunto il suo punto di rottura. Dei 111 casi avvenuti fino a ora, 91 sono finiti con la morte immediata: non si conosce invece la sorte dei 20 che sarebbero sopravvissuti al fuoco. L'epicentro della protesta è Ngaba, dove si è verificato il numero maggiore dei casi: la popolazione ha ribattezzato la strada principale "Strada degli eroi del Tibet".
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Ieri è stata la volta di Kal Kyi, 30 anni e madre di quattro figli, che si è autoimmolata nei pressi del monastero Jonang, nel Tibet orientale. Tsengyang Gyatso, esule tibetano che proviene da quell'area, dice: "Il corpo è stato portato subito dentro il monastero per evitare che venisse preso dalla polizia". Per evitare proteste pubbliche, infatti, le autorità regionali tendono a portare via i corpi dei suicidi e negano loro la sepoltura religiosa.
Secondo una fonte anonima della contea di Dzamthang, la donna si è uccisa "per sottolineare la violenta politica cinese in Tibet". Più volte le autorità tibetane in esilio - politiche e religiose - hanno chiesto al governo centrale cinese di aprire un tavolo per gestire la situazione. Pechino ha preferito fino a ora emanare invece nuovi regolamenti che minacciano l'arresto immediato "per chi si auto-immola e per chi incita gli altri a farlo".
Kal Kyi è la 16ma donna che decide di uccidersi per la causa tibetana sin dal febbraio del 2009, quando la crisi interna al Tibet ha raggiunto il suo punto di rottura. Dei 111 casi avvenuti fino a ora, 91 sono finiti con la morte immediata: non si conosce invece la sorte dei 20 che sarebbero sopravvissuti al fuoco. L'epicentro della protesta è Ngaba, dove si è verificato il numero maggiore dei casi: la popolazione ha ribattezzato la strada principale "Strada degli eroi del Tibet".
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