di Giordano Fenzi, redattore de “La voce degli italiani” a Londra
Forse, chi emigra sa bene cosa vuol dire Natale. O forse, ha solo fatto proprio il suo significato un po’ per scelta e un po’ per necessità. Tra qualche settimana molti italiani all’estero torneranno in Italia, nella propria famiglia. Natale è fare posto, trovo scritto in un recente best-seller “Vangelo dei migranti” della EMI. E chi meglio di un migrante conosce il vero e quotidiano significato di queste due parole?
Fare posto a un altro mondo è spesso un esercizio faticoso. Bisogna fare posto ad un’altra lingua, altri valori, altre esigenze, altre leggi. Bisogna fare posto agli altri. Emigrare vuol dire essere disponibili ad accogliere, ma anche amare ancora di più il proprio Paese. È vero, ci si accorge di quanto si vuole bene ad una persona solo quando ci si allontana da lei.
Così, stando lontano dall’Italia provo un sentimento contrastante. L’affetto e la nostalgia vanno di pari passo con un senso di frustrazione. Sì, per un Paese schiavo di politici ai quali pare non interessare il risolvere i problemi dei cittadini. Persone che sembrano guardare solo ai propri interessi e per essi sono disposti a sacrificare quelli di milioni di persone. Provo amore e rabbia verso un’Italia che non riesce a risolvere i propri problemi, che viene trascinata sempre più in basso da una classe politica che invece di esprimere i valori più nobili della società, spesso ne rappresenta gli istinti più bassi.
Questi sentimenti vanno, però, di pari passo con la nostalgia per luoghi bellissimi, per una lingua intrisa di storia e per relazioni personali fatte di sincerità e passione. La politica dovrebbe avere la stessa umiltà che si ha quando ci si mette in gioco in un altro Paese. Come noi, emigranti. Quando si mettono da parte le proprie certezze e ci si prepara a capire un altro punto di vista. E comprendere, in fondo, che dietro le differenze di lingua, di cultura o di religione ci sono sempre le stesse ansie, gli stessi desideri.
Ognuno sente, alla propria maniera, un bisogno di futuro, rappresentato da un lavoro, da una casa, da una famiglia e da un po’ di felicità. Chi emigra lo fa spesso per necessità, per costruirsi un futuro dignitoso, che il proprio Paese non riesce a garantire.
Per me, in fondo, il Natale è questo. Amore e rabbia. Ma è soprattutto speranza. Speranza che chi governa il nostro bellissimo Paese impari a volergli bene, come gliene vuole chi lo vede da lontano.
Così, stando lontano dall’Italia provo un sentimento contrastante. L’affetto e la nostalgia vanno di pari passo con un senso di frustrazione. Sì, per un Paese schiavo di politici ai quali pare non interessare il risolvere i problemi dei cittadini. Persone che sembrano guardare solo ai propri interessi e per essi sono disposti a sacrificare quelli di milioni di persone. Provo amore e rabbia verso un’Italia che non riesce a risolvere i propri problemi, che viene trascinata sempre più in basso da una classe politica che invece di esprimere i valori più nobili della società, spesso ne rappresenta gli istinti più bassi.
Questi sentimenti vanno, però, di pari passo con la nostalgia per luoghi bellissimi, per una lingua intrisa di storia e per relazioni personali fatte di sincerità e passione. La politica dovrebbe avere la stessa umiltà che si ha quando ci si mette in gioco in un altro Paese. Come noi, emigranti. Quando si mettono da parte le proprie certezze e ci si prepara a capire un altro punto di vista. E comprendere, in fondo, che dietro le differenze di lingua, di cultura o di religione ci sono sempre le stesse ansie, gli stessi desideri.
Ognuno sente, alla propria maniera, un bisogno di futuro, rappresentato da un lavoro, da una casa, da una famiglia e da un po’ di felicità. Chi emigra lo fa spesso per necessità, per costruirsi un futuro dignitoso, che il proprio Paese non riesce a garantire.
Per me, in fondo, il Natale è questo. Amore e rabbia. Ma è soprattutto speranza. Speranza che chi governa il nostro bellissimo Paese impari a volergli bene, come gliene vuole chi lo vede da lontano.
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