Sono contrastanti i giudizi sulle “gacaca”, le corti popolari di diritto tradizionale istituite nel 2001 per giudicare migliaia di persone accusate a vario titolo di coinvolgimento nel genocidio.
Agenzia Misna - Martedì prossimo, 30 Giugno, quasi tutti questi tribunali cesseranno di esistere e trasferiranno i circa 4000 casi ancora pendenti a corti ordinarie. Secondo Theodore Simburudari, presidente di Ibuka, un’associazione di “sopravvissuti al genocidio”, a volte le testimonianze rese di fronte alle “gacaca” hanno innescato vendette e ritorsioni. In altri casi, si sottolinea in un servizio da Kigali dell’agenzia di informazione Irin, minacce e violenze hanno colpito gli imputati. Circostanze, queste, favorite dal carattere pubblico dei procedimenti: il termine “gacaca” vuol dire “erba” e suggerisce come le udienze si svolgano all’aperto, quasi sempre di fronte a un pubblico numeroso. Diverse organizzazioni umanitarie hanno sostenuto che queste corti tradizionali hanno impedito un eccessivo sovraffollamento delle carceri, anche perché hanno comminato spesso condanne alternative, ad esempio a lavori socialmente utili. Secondo alcune associazioni occidentali, però, in molti casi le “gacaca” non hanno assicurato il diritto dell’imputato a una difesa adeguata. Interessante il giudizio di un avvocato di Kigali intervistato da Irin, secondo il quale i tribunali popolari hanno funzionato piuttosto bene se si considera la mancanza di risorse finanziarie e di giudici con una solida formazione. Visioni differenti anche sulla capacità delle “gacaca” di favorire la riconciliazione fra hutu e tutsi, i due gruppi etnici protagonisti dei massacri del 1994. In questo caso i dubbi riguardano però anche il Tribunale penale internazionale per il Rwanda (Tpir), l’organismo con sede in Tanzania incaricato di giudicare i casi più gravi.
Agenzia Misna - Martedì prossimo, 30 Giugno, quasi tutti questi tribunali cesseranno di esistere e trasferiranno i circa 4000 casi ancora pendenti a corti ordinarie. Secondo Theodore Simburudari, presidente di Ibuka, un’associazione di “sopravvissuti al genocidio”, a volte le testimonianze rese di fronte alle “gacaca” hanno innescato vendette e ritorsioni. In altri casi, si sottolinea in un servizio da Kigali dell’agenzia di informazione Irin, minacce e violenze hanno colpito gli imputati. Circostanze, queste, favorite dal carattere pubblico dei procedimenti: il termine “gacaca” vuol dire “erba” e suggerisce come le udienze si svolgano all’aperto, quasi sempre di fronte a un pubblico numeroso. Diverse organizzazioni umanitarie hanno sostenuto che queste corti tradizionali hanno impedito un eccessivo sovraffollamento delle carceri, anche perché hanno comminato spesso condanne alternative, ad esempio a lavori socialmente utili. Secondo alcune associazioni occidentali, però, in molti casi le “gacaca” non hanno assicurato il diritto dell’imputato a una difesa adeguata. Interessante il giudizio di un avvocato di Kigali intervistato da Irin, secondo il quale i tribunali popolari hanno funzionato piuttosto bene se si considera la mancanza di risorse finanziarie e di giudici con una solida formazione. Visioni differenti anche sulla capacità delle “gacaca” di favorire la riconciliazione fra hutu e tutsi, i due gruppi etnici protagonisti dei massacri del 1994. In questo caso i dubbi riguardano però anche il Tribunale penale internazionale per il Rwanda (Tpir), l’organismo con sede in Tanzania incaricato di giudicare i casi più gravi.| Tweet |
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