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domenica, marzo 07, 2010

Il singolare del femminile plurale


di Monica Cardarelli

“La donna entra nella stanza, entra in una stanza. Le stanze sono così diverse l’una dall’altra; sono tranquille o tempestose; affacciate sul mare o, al contrario, sul cortile di un carcere; con il bucato appeso ad asciugare; o risplendenti di opali e di sete; sono dure come crine di cavallo o soffici come piume – basta entrare in qualunque stanza di qualunque strada perché salti agli occhi tutta quella forza, estremamente complessa, che è la femminilità. (…)
Ma tale forza creativa differisce enormemente dalla forza creativa degli uomini. E si deve concludere che sarebbe mille volte un peccato se essa venisse ostacolata o sciupata. (…) Sarebbe mille volte un peccato se le donne scrivessero come gli uomini o vivessero come gli uomini o assumessero l’aspetto di uomini, perché se due sessi sono insufficienti, considerata la vastità e varietà del mondo, come faremmo mai con uno solo? Non dovrebbe forse l’istruzione fare emergere e rendere più salde le differenze anziché le somiglianze? Perché di somiglianze ne abbiamo già troppe. (…)” (Virginia Woolf, ‘Una stanza tutta per sé’)

Così Virginia Woolf scriveva in occasione di una conferenza tenuta presso la Arts Society di Newnham e la Odtaa di Girton nell’ottobre del 1928.
La donna entra nella stanza, nella sua intimità, nel suo essere.
Esistono tante stanze, tanti modi ed espressioni di femminile anche in una stessa donna.
C’è un mondo complesso e ricco, denso di sfumature che potrebbero anche essere interpretate come volubilità dettata dalla luna. Ma non si tratta di questo; la femminilità è molto di più.
Esistono tante donne, mille modi di essere del ‘femminile’.
Prima di tutto però, la donna entra nella stanza. Conosce. Vede e conosce. È una conoscenza che passa attraverso tutti i sensi, la vista, l’olfatto, l’udito e il tatto.
Una conoscenza intuitiva, corporea - fatta anche di sensazioni, odori rimasti sulla pelle, suoni e rumori che restano e risuonano dentro, nella mente e nelle viscere - e non solo intellettiva. Una conoscenza completa che necessita di molto tempo, a volte tutta una vita, per essere raggiunta.
Così, la donna prende coscienza di sé. Ora conosce le stanze in cui potersi, di volta in volta, rilassare su una comoda poltrona o piangere in un angolo buio. Stanze in cui poter gioire e soffrire, amare e odiare.
Quando una donna raggiunge questa consapevolezza di sé, scopre anche quella forza unica e inesauribile della femminilità. E tale “forza creativa differisce enormemente dalla forza creativa degli uomini”. Non deve esserci competizione, ma semplicemente la differenza è un dato di fatto e come tutte le diversità, è ricchezza.
Solo con la consapevolezza dell’essenza del femminile si può valorizzarne l’unicità. Non si tratta di abolire le differenze, uniformando, ma di esaltare le particolarità.
Ciò vale non solo nel rapporto femminile/maschile ma anche nella conoscenza personale. Ogni persona è un mondo a sé, ogni persona racchiude un’infinità di intersezioni di emozioni e sentimenti, di stati d’animo e paure, di ricordi e speranze, di passato e promesse.
Creatività e accoglienza. Forza e fecondità. Tante le caratteristiche e le contraddizioni proprie del femminile che possono essere mescolate in vari binomi intersecandosi fra loro. Fecondità creativa; forza e accoglienza, e tanti altri modi ma anche solo elencarli o cercare delle soluzioni è limitativo.
Certo è che l’espressione creativa della donna è inimmaginabile, perfino alle stesse donne. Si tratta di una creatività espressa in una miriade di modi diversi e che passa attraverso molteplici concretizzazioni: dal teatro alla scienza; dalla scrittura alla ricerca; dalla maternità all’arte in genere.
Quando la donna riesce a mettere del ‘femminile’ in tutto ciò che genera, allora esprime il ‘carattere’, l’unicità del femminile e del proprio essere, la ricchezza che porta dentro.
Sono quelli i momenti in cui la donna apre le porte delle stanze che abita e lascia fluire una comunicazione con il mondo.

Se nel 1928 Virginia Woolf scriveva “Non dovrebbe forse l’istruzione fare emergere e rendere più salde le differenze anziché le somiglianze?” forse, oggi, potremmo augurarci con Rainer Maria Rilke: “Questa umanità della donna sopportata in dolori e umiliazioni, quando avrà gettate da sé le convenzioni della esclusiva femminilità nelle metamorfosi del suo stato esteriore, verrà alla luce, e gli uomini che non la sentono oggi ancora venire, ne saranno sorpresi e colpiti.
Un giorno esisterà la fanciulla e la donna, il cui nome non significherà più soltanto un contrapposto al maschile, ma qualcosa per sé, qualcosa per cui non si penserà a complemento e confine, ma solo a vita reale: l’umanità femminile.
Questo progresso trasformerà l’esperienza dell’amore, che ora è piena d’errore, la muterà dal fondo, la riplasmerà in una relazione intesa da uomo a uomo non più da maschio a femmina.



E questo più umano amore somiglierà a quello che noi con lotta faticosa prepariamo, all’amore che in questo consiste, che due solitudini si custodiscano, delimitino e salutino a vicenda.” (Rainer Maria Rilke, ‘Lettera e un giovane poeta’)

tratto da:
"Terza Pagina" - Trimestrale di editoria e cultura, Numero 19, Giugno 2009. Sovera.

... (continua)
martedì, gennaio 12, 2010

Francesco di terra e di vento

della nostra corrispondente Monica Cardarelli

La scena spoglia, vuota. Un tappeto di foglie rossastre sul palco. Luci calde che avvolgono o preannunciano di volta in volta sensazioni, emozioni, ricordi, parole… suoni e rumori di una vita lontana rievocata e vissuta qui e ora. Ha inizio la magia del teatro.
Tre attori sul palcoscenico con costumi semplici e rievocativi di un’epoca, di uno stile di vita, di una scelta, quella di Francesco. Con loro si ripercorrono alcuni momenti di questa scelta con spontaneità e leggerezza, con intensità e gioia, con allegria e dolore. Francesco Giullare di Dio ma anche il Francesco delle stimmate. L’intensità della voce del crocefisso di San Damiano che invia Francesco a riparare la chiesa e i suoi compagni che con lui accolgono Chiara nella piccola chiesa della Porziuncola. La vita di San Francesco d’Assisi ha da sempre affascinato e continua ad attrarre folle di giovani e non che ritrovano in questo santo un richiamo particolare. Numerose sono state finora le rappresentazioni musicali e teatrali sulla vita di Francesco. La cosa però che colpisce partecipando al lavoro teatrale “Francesco di terra e di vento” del Teatro Minimo è la grande umanità di quest’uomo, che poi è forse l’aspetto che sentiamo più vicino.

Il testo scritto da Umberto Zanoletti che ne cura anche la regia è un susseguirsi di emozioni e poesia, di sorrisi e calore fraterno, di forti scelte e contraddizioni senza mai cadere nel racconto di una storia ormai conosciuta. Infatti, non è la storia né i fatti che interessavano in questo lavoro. Quello che viene vissuto sulla scena e trasmesso con grande professionalità e allo stesso tempo spontaneità dagli attori Andrea Cereda, Manuel Gregna e Massimiliano Zanellati è un percorso pervaso di umanità.
La regia di Umberto Zanoletti, poi, riesce con immagini sempre nuove e mai ripetute, con ritmi creati da alternanze di voci a volte sovrapposte, con luci e suoni che accompagnano, ad alternare momenti di fraternità a momenti di grande intensità e solitudine.
È questo lo stile proprio del Teatro Minimo, essenziale. “Stupore, diffidenza, sorpresa, passione: questi diversi atteggiamenti hanno contraddistinto la nostra difficile ricerca. Più volte ci siamo trovati di fronte a quest’uomo, alla sua proposta e alla sua sofferenza a chiederci mille perché. Su di lui e su di noi. Abbiamo iniziato a scambiarci alcune perplessità, le stesse degli abitanti di Assisi nel 1200, ma non ci siamo voluti fermare lì. Abbiamo immaginato e capito la paterna disperazione di Bernardone, umiliato e sconfitto in piazza ad Assisi. Con fatica abbiamo immaginato Chiara e Francesco che parlano d’amore, di un amore eterno. Siamo stati alla Verna dove abbiamo calpestato le foglie di faggio secche e abbiamo toccato le pietre fredde e umide dove Francesco dormiva. Abbiamo sentito il vento freddo soffiare di notte, tra i lecci dell’Eremo, che portava l’odore della terra umbra. E abbiamo cercato di capire dove Francesco trovasse i motivi per scrivere il Cantico delle Creature. Abbiamo tentato di immaginare l’uomo, con se stesso, tra gli uomini e qualche volta di fronte a Dio. Spesso ci è sembrato sofferente, e così lo abbiamo raccontato, scoprendo la sua infinita serenità.” Questo si legge nella presentazione al lavoro “Francesco di terra e di vento” del Teatro Minimo. Questo e molto di più arriva allo spettatore, coinvolto in una fluida comunicazione di emozioni.
Il Teatro Minimo ha sede a Ardesio, in provincia di Bergamo ed è diretto da Umberto Zanoletti (www.teatrominimo.it). Numerose le produzioni teatrali che spaziano da proposte per i ragazzi quali “Il gatto con gli stivali” o “L’usignolo e l’imperatore” a lavori come “In nome della madre” (dal racconto di Erri de Luca sull’enorme mistero della maternità), “Novecento” o “Buzzati suite” a letture sceniche come “Le farfalle non vivono qui e “Io ero una stella”, rappresentati in occasione della Giornata della Memoria, e molti altri tra cui “Francesco di terra e di vento” a cui abbiamo avuto la fortuna di assistere.
... (continua)
giovedì, novembre 26, 2009

Quando il libro ritrova il suo valore


di Monica Cardarelli

“Professore: Se ci mettessimo a bruciare i libri, allora davvero avremmo perso la guerra. Marina: La guerra l’abbiamo già persa.” Sono le parole di “Libri da ardere” (titolo originale “Les combustibles”), un testo teatrale di Amélie Nothomb, intenso e surreale
come tutti i suoi scritti. E forse neanche troppo in questo caso, visto il tema trattato e l’ambientazione. In questa storia il Professore, il suo assistente Daniel e una sua allieva Marina vivono in una città sotto assedio, in stato di guerra dunque in cui manca tutto. È inverno, fa molto freddo. I tre personaggi hanno caratteri e ruoli diversi e si crea un equilibrio molto precario fra i tre ma tutto in questo lavoro ruota intorno ai libri e al loro valore. In un momento di sconforto e delirio, Marina, la più disincantata che sembra aver perso interesse e speranza nell’arte, nella bellezza e nell’uomo propone per scaldarsi di bruciare i libri. Questo interessante lavoro ci offre il pretesto per riflettere sul valore del libro e della scrittura. Che valore ha la scrittura per chi scrive e per chi legge? Che rapporto esiste tra un libro, il lettore e chi lo ha creato? Quali legami e che valore può avere un libro sia da un punto di vista personale che sociale? Ho sempre pensato che la scrittura fosse un modo di comunicare e di entrare in contatto con altri diversi da me che sentono e pensano ciò che io sento e penso e traspongo sulla carta. Si tratta di un rapporto intenso come intenso è il processo di scrittura. In ciò che si scrive viene posto qualcosa di molto personale anche se non autobiografico. Scrivere significa in qualche modo lasciar andare, permettere ai tuoi pensieri, alle tue emozioni, ai ciò che senti di concretizzarsi attraverso delle parole e di fuoriuscire da te per giungere ad altri. C’è qualcosa che avvicina al dono. Anche se la scrittura non è solo questo, è anche vera e propria creazione, immaginazione e incontro.
Per poter scrivere è utile avere, come suggeriva Virginia Woolf, “una stanza tutta per sé”. Non solo in termini di autonomia ma anche perché questo significa potersi relazionare su due livelli. Il primo è un piano ‘personale’, una relazionalità con se stessi e con ciò che si è. Successivamente, si può e si deve però osservare il mondo esterno e relazionarsi agli altri. La stanza intesa come momento di intimità e solitudine e allo stesso tempo la stanza è inserita nella casa e da lì si partecipa alla vita domestica e dalla finestra si può osservare il mondo fuori che scorre. Tutto questo permette di non perdere mai il contatto con i destinatari di ciò che si scrive e di poter dialogare con loro.
Questo ci porta ad un’ulteriore riflessione e cioè al valore sociale della scrittura e del libro. Un libro, non è mai astratto dalla realtà del momento in cui è stato scritto. Rappresenta un momento storico ben preciso ed ha un valore sociale notevole. Un libro può essere un modo di riflettere sulla realtà sociale, storica di un determinato periodo e popolo.
Inoltre, è indubbio il valore della lettura e l’importanza che questa riveste. Non solo perché rappresenta il momento in cui si stabilisce il legame tra autore e lettore; non solo perché è proprio nel momento della lettura che il libro prende realmente vita; ma perché è il momento in cui per il lettore inizia la grande magia di ‘ritrovarsi’.
È curioso scoprire, di volta in volta, il rapporto che ciascuno di noi ha con i libri. Ci sono persone che leggono più libri contemporaneamente, altre che non riescono a farlo e quando hanno iniziato a leggere un libro vanno avanti fino alla fine. Ci sono persone che non voglio tenere il libro con sé una volta letto, ma preferiscono ‘liberarlo’ e darlo ad altri o alle biblioteche. Ognuno ha un modo tutto personale di riconoscere il valore del libro e dargli vita, restituirgli quella vita iniziale che lo scrittore gli aveva affidato e che inizia a sorgere con la lettura.
“Daniel: E poi è così confortevole continuare a infangare la reputazione di un libro. Non c’è rischio che il libro si vendichi: è questo il bello della letteratura. Ci si può permettere di tutto. (…) La letteratura non è questo! (…) Uno legge per scoprire una visione del mondo. (…)
Professore: A che serve esporre una visione del mondo se il mondo se ne frega?
Daniel: Bé, sta a noi educare i lettori affinché la lettura non sia più inutile.
Professore: Educare un lettore! Come se un lettore si potesse educare!” (Libri da ardere, Amélie Nothomb)
Non sarà facile e soprattutto, è opportuno ‘educare i lettori’? O piuttosto sarebbe utile che dal rapporto scrittore/lettore si giungesse ad un piano in cui ci sia un coinvolgimento anche delle istituzioni locali per restituire al libro il valore sociale che riveste?
Sabato 21 novembre, ad esempio, è stata inaugurata la nuova sede della Biblioteca Comunale di Camucia che, insieme alla Biblioteca Comunale di Cortona, ricca di testi e manoscritti antichissimi, continuerà ad ospitare iniziative ed eventi quali presentazioni di libri, Circolo di lettura e altro.
Domenica 22 novembre al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma ha avuto luogo la cerimonia di premiazione del concorso letterario “Roma da scrivere” promosso da un Municipio del Comune di Roma in collaborazione con la casa editrice Edilazio che ha curato anche la pubblicazione dei racconti con il contributo della Scuola Romana Fumetti e di due compagnie teatrali hanno curato la mise en espace dei racconti primi classificati.
Eventi come questi ce ne sono tanti fortunatamente anche se a volte non fanno rumore e sembrano notizie irrilevanti ma sono importanti per il tessuto culturale del territorio e sono sempre più auspicabili perché restituiscono al libro il suo giusto valore, il suo posto nella società. Partono da quel legame indispensabile perché il libro prenda vita che è il rapporto con i lettori e da qui procedono con il coinvolgimento di enti e istituzioni.
Perché, come scriveva Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé”: “Chiudete a chiave le vostre biblioteche, se volete; ma non c’è cancello, né serratura, né chiavistello che voi possiate mettere alla libertà del mio pensiero.”


... (continua)
domenica, novembre 15, 2009

Oh, oh, mi è sembrato di vedere un gatto…


di Monica Cardarelli

Quante volte ci ritroviamo a guardare un cartone animato come Titty e Gatto Silvestro oppure Tom & Jerry o ancora Speedy Gonzales e ci scopriamo ancora a ridere per le buffe avventure dei nostri amici? Oltre alla tecnica del cartone animato che è estremamente interessante ciò che colpisce è il fatto che le storie dei cartoni e dei loro personaggi siano solo un pretesto per raccontare qualcosa di più. O, almeno, ci si può trovare anche qualcos’altro. Molti cartoni hanno come protagonisti gli animali, e ciò ci richiama alla memoria le favole di De La Fontaine. Infatti, anche in Tom e Jerry e negli altri protagonisti di cartoni ormai passati alla storia troviamo delle caratteristiche, dei difetti e pregi degli esseri umani. Impiegare degli animali nelle storie e ‘umanizzarli’ non fa altro che permettere di ironizzare sulla ‘umanità’, sui suoi difetti e sulle sue caratteristiche universali ,come ad esempio l’avarizia, la gelosia, la collera e molto altro.

Attraverso i nostri amici ‘cartoni animali’ ci ritroviamo però a sorridere e a ridere di noi stessi e dei nostri simili. Alla fine della storia, poi, come nelle favole di De La Fontane troviamo sempre una morale che ci fa simpaticamente riflettere. Il tutto condito da una bella comicità che rispetta in pieno i tempi e i ritmi e che permette alle gag di svolgersi senza sosta cosicché i personaggi passano di volta in volta dal vinto al vincitore.
Si ritrova anche un po’ la tecnica clownesca, laddove uno dei protagonisti è per antonomasia colui che cerca sempre di vincere e non riesce mai e l’altro, il più furbo, che senza nemmeno farsene accorgere riesce sempre a portare la situazione dalla sua parte. Ma, come in tutte le storie clownesche che si rispettino, ogni clown vince e perde in continuazione.

Una ulteriore e divertente caratteristica dei cartoni è la trasformazione fisica. Ad esempio Gatto Silvestro, quando si arrabbia compie il gesto di rimboccarsi le maniche prima di sferrare un duro colpo all’avversario. Ma, essendo sprovvisto di abiti, un gatto non può che tirarsi su la pelle del braccio. Questo semplice e comico gesto che lo riavvicina al comportamento umano ci fa ridere e sorridere della nostra collera.

Il risvolto positivo, però, nei cartoni a differenza di tante situazioni ‘umane’, è dato dal fatto che questo stato di collera duri il tempo necessario per il movimento dopodiché tutto rientra nella norma, la pelle del gatto torna normale, l’arrabbiatura si smorza e passa dalla parte del vittorioso, solo per qualche minuto però, giusto il tempo di prenderle di santa ragione e allora il gioco ricomincia.

A ben pensarci, in molte storie di cartoni i protagonisti sono degli ‘antagonisti storici’ o meglio, nemici. Titty è un grazioso canarino e Gatto Silvestro un gatto. Tom & Jerry sono i nemici per antonomasia, topo e gatto. I personaggi sono tutti animali che, nel pensiero e nella cultura ‘umana’, non possono che essere nemici. Infatti tutte le storie dei nostri amici hanno come motivo conduttore inseguimenti e sberleffi. Però, in generale c’è anche la ricerca di un rapporto pacifico, di una pacifica convivenza nello spazio comune in cui vivono i due animali. Come un rapporto di amore/odio, amicizia/inimicizia, in ogni modo tutti noi sappiamo bene che Gatto Silvestro non sarebbe tale senza Titty e viceversa. A volte, il rapporto col diverso è possibile e soprattutto indispensabile per delineare la propria unicità ma anche la propria relazionalità con l’altro anche quando questo ‘altro’ è diverso da sè.

Chissà se, come nei cartoni, anche fra gli ‘umani’ si potrà un giorno arrivare ad una società in cui ci siano dei rapporti di amicizia/inimicizia anche con chi è ‘storicamente’ contrapposto e visto come nemico? Così facendo si potrebbe dimostrare che una convivenza pacifica nella stessa casa, anche se con litigi e inseguimenti, è possibile. E soprattutto, riusciremo, anche noi umani, a far durare la collera lo spazio di un minuto, il tempo necessario di capire cosa stiamo realmente facendo?
... (continua)
martedì, novembre 10, 2009

"Non dimenticatemi", pensieri e opere del grande pensatore russo Pavel A. Florenskij

Pavel A. Florenskij è stato un grande pensatore russo, forse uno dei più grandi del Novecento. Un filosofo della scienza, un matematico, fisico, ingegnere elettronico, ma anche teologo, studioso di estetica e di semiotica.

di Monica Cardarelli

La complessità del suo pensiero, la ricchezza delle sue riflessioni hanno portato a quella che oggi viene chiamata “Florenskij-Renaissance” poiché ormai in gran parte d’Europa si sviluppano e si moltiplicano gli incontri, i convegni, gli studi su di lui e sulla sua vita. Infatti, di questo “Pascal russo”, come è stato definito, l’opera principale è rappresentata dalla sua vita. Pavel Aleksandrovic Florenskij (1882-1937) laureato in matematica, rifiutò la cattedra universitaria per studiare teologia. Ordinato Presbitero ortodosso, docente di filosofia presso l’Accademia Teologia moscovita, ha svolto la sua attività filosofica, teologica, scientifica fino a quando è stato rinchiuso nel famigerato gulag delle isolo Solovki e, l’8 dicembre 1937, in un luogo sconosciuto presso Leningrado, fu fucilato.
Non è facile delineare il pensiero profondo di questo filosofo e teologo e la cosa più interessante resta sempre la scoperta della vita di Florenskij. Dopo la rivoluzione del 1917, a differenza di molti altri intellettuali russi, non scelse l’esilio, convinto della necessità di una resistenza interna. Perciò, nel periodo in cui il governo dei Soviet con l’intento di distruggere l’anima spirituale della cultura russa sferrava duri attacchi, a cominciare dal monastero della Santissima Trinità di San Sergio, Florenskij fu incarcerato una prima volta nel maggio del 1928 e incluso tra i soggetti socialmente pericolosi in quanto considerato “un oscurantista, una minaccia per il potere sovietico” e condannato a tre anni di confino a Niznij Novgorod. La condanna venne annullata poco dopo ma Florenskij sapeva bene che avrebbe avuto un seguito. Infatti, nel febbraio del 1933 viene nuovamente incriminato, arrestato e condannato a dieci anni di lager. Nonostante tutto, dopo alcuni mesi di prigionia a Lubjanka, sottoposto a continue minacce e violenze, Florenskij inizia a scrivere un piccolo trattato, la “Proposta di una futura struttura dello stato”.
Successivamente, viene inviato in un lager della Siberia occidentale, il BAMlag di Skovorodino e qui viene assegnato al reparto per la ricerca scientifica. Paradossalmente, inizia per Florenskij uno dei periodi forse più fecondi dei suoi ultimi anni di vita durante il quale riesce a mettere in atto alcune sue teorie e a studiare il fenomeno dei ghiacci perenni. Nell’estate del 1934, riceve la visita della moglie, Anna Michajlovna e dei tre figli più piccoli, Ol’ga, Michail e Maria-Tinatin. Infine, dal settembre del 1934 viene trasferito attraverso la Siberia e gli Urali fino al Mar Bianco, dove l’arcipelago delle isole Solovki era stato ormai trasformato nel gulag SLON.
“Se non ci fosse la preoccupazione per voi che non mi lascia mai e se non ci fosse la tristezza del distacco da voi, potrei dire che sono molto lieto di essermi liberato da Mosca (…) (2 marzo 1934).” Durante tutti questi anni, Florenskij avrà un unico modo per mantenere viva la propria mente e l’affetto per i suoi cari e la sua famiglia: scrivere delle lettere.
“Vivo in uno stato di continuo torpore spirituale: è l’unico modo per sopravvivere; i giorni e le settimane si susseguono sempre uguali. Se in questo dormiveglia c’è qualcosa di vivo, sono i ricordi e i pensieri rivolti a voi, tutto il resto è illusorio e passa come ombra.” (15 novembre 1935). E ancora: “La mancanza di impressioni che arricchiscano e l’impossibilità di concentrarmi in me stesso mi procurano un senso di vuoto interiore, e mi sembra di istupidirmi ogni giorno di più.” (16 gennaio 1936).
Leggere le lettere di Pavel Florenskij (pubblicate da Mondadori con il titolo “Non dimenticatemi”) è come veder scorrere davanti agli occhi la sua vita. Da questi scritti emerge tutta l’umanità e l’affettività dell’uomo prima ancora che del filosofo, teologo e sacerdote.
“Mi pesa vivere in modo tranquillo e sereno, mentre voi, miei cari, soffrite. In ogni caso non scoraggiatevi. Dì ai figli che le nostre cose in qualche modo si sistemeranno, dì che vivano del presente, con più forza e più gioia. Un bacio forte a te, cara; abbi cura di te stessa e dei figli. La sera guarda le stelle.” (18, 20 marzo 1934)
In questi scritti si alternano pensieri che riguardano lo studio di Florenskij o la preoccupazione per il paese a lettere in cui è semplicemente il padre che si preoccupa dell’educazione dei figli e dell’affetto che non riesce a fargli avere. “Vivo di ricordi, mi rammento dei più piccoli dettagli su ciascuno di voi (…) Il passato non è passato, ma è custodito e rimane per sempre, ma noi lo dimentichiamo e ci allontaniamo da esso. Tuttavia, in seguito, lungo il susseguirsi imprevedibile delle circostanze, esso riappare di nuovo come un eterno presente.” (27 maggio 1935).
Oppure, nella lettera rivolta alla moglie: “Ognuno ha il proprio dolore e la propria croce. Perciò non lamentarti della tua. In questo periodo attorno a me ho visto tanto dolore in tutte le sue forme e le sue cause, che ciò mi ha distolto completamente dal mio.” (23-24 marzo 1934).
Ma “vedere nell’altro realmente una persona che ami (28 aprile 1936)” è la convinzione di fede di Florenskij sacerdote e teologo poiché egli ha la “ferma convinzione che al mondo niente si perde, né di bene né di male, e presto o tardi lascerà il suo segno. (…) La mia più intima persuasione è questa: nulla si perde completamente, nulla svanisce, ma si custodisce in qualche tempo e in qualche luogo. Ciò che è immagine del bene e ha valore rimane, anche se non cessiamo di percepirlo (…) senza questa consapevolezza la vita si perderebbe nel vuoto e nel non senso” (23 febbraio 1937).
Il pensiero di un uomo, le sue convinzioni di vita, le sue riflessioni e la sua visione della storia del momento in queste lettere, in queste parole che Florenskij rivolge sì ai familiari ma anche in qualche modo, a tutti: “essere e non apparire, costruire una disposizione d’animo chiara e trasparente, una percezione del mondo integrale, e coltivare con attenzione e in modo disinteressato il pensiero.” (13 maggio 1937). E ancora: “Non tradire mai le tue più profonde convinzioni interiori per nessuna ragione al mondo. Ricorda che ogni compromesso porta a un nuovo compromesso, e così all’infinito.”
Inoltre, nel “Testamento” rivolgendosi ai figli, Florenskij scrive: “Non fate le cose in maniera confusa, non fate nulla in modo approssimativo, senza persuasione, senza provare gusto per quello che state facendo. Ricordate che nell’approssimazione si può perdere la propria vita! (…) Cari figli miei, guardatevi dal pensare in maniera disattenta. Il pensiero è un dono di Dio ed esige che ci si prenda cura con tutte le forze del suo oggetto. (…) Quando proverete tristezza nel vostro animo guardate le stelle oppure il cielo di giorno. Quando siete tristi, offesi, sconsolati o sconvolti per un tormento dell’anima, uscite all’aria aperta e fermatevi in solitudine immersi nel cielo. Allora la vostra anima troverà quiete.”
Dalle lettere dal lager traspare anche una grande fede e conformità alla volontà di Dio, al Suo amore e alla croce. Il senso della sofferenza, Florenskij l’ha vissuto e provato in prima persona, senza mai tirarsi indietro, senza mai farne a meno. “Il destino della grandezza è la sofferenza, quella causata dal mondo esterno e la sofferenza interiore. Così è stato, così è e così sarà. Perché sia così è assolutamente chiaro: c’è una sorta di ritardo della coscienza rispetto alla grandezza e dell’ “io” rispetto alla sua propria grandezza. (…) È chiaro che il mondo è fatto in modo che non gli si possa donare nulla se non pagandolo con sofferenza e persecuzione. E tanto più disinteressato è il dono, tanto più crudeli saranno le persecuzioni e atroci le sofferenze. Tale è la legge della vita, il suo assioma fondamentale (…). Per il proprio dono, la grandezza, bisogna pagare con il sangue.” (13 febbraio 1937)
È una consapevolezza forse maturata giorno dopo giorno, grazie anche ai suoi studi scientifici, matematici, filosofici, sicuramente sentita e provata da questo grande teologo e uomo di fede, fatto sta che da questi scritti appare un uomo consapevole del fatto che il grande paradosso della fede cristiana è la Croce come segno di Amore: “La fede che ci salva è il principio e la fine della Croce e della con-crocifissione al Cristo.”

... (continua)
martedì, novembre 10, 2009

Se Dio c’è, di che religione è?

Un libro di Rino Cammilleri cerca di spiegare il cattolicesimo

ZENIT.org - Si trova già nelle librerie online l’ultimo saggio di Rino Cammilleri dal titolo “Dio è cattolico?” (Lindau Edizioni). Rino Cammilleri è un notissimo saggista, scrittore e giornalista. Autore di rubriche in diverse testate giornalistiche, ha pubblicato decine di libri di successo, tra cui “Il crocifisso del samurai” (Rizzoli), “La vera storia dell’inquisizione” (Piemme), “I mostri della ragione” (Ares), e “Gli occhi di Maria” (Bur Rizzoli). Come ha scritto Ettore Gotti Tedeschi nell’introduzione, “Cammilleri è fra i maggiori apologeti viventi” ed in questo libro tratta “del perché si può essere sicuri del cattolicesimo e dei suoi vantaggi competitivi nei confronti delle altre religioni”.

Secondo Cammilleri nel mondo non funziona più quasi nulla, ma non perché c’è una crisi di valori che non permette più agli uomini di dare un senso agli strumenti di civiltà disponibili, il punto centrale è che “questa crisi di valori discende dalla crisi della fede” nel “non credere più nello stesso Dio”.

Il libro analizza duemila anni di cristianesimo affrontando i passaggi storici più controversi e complessi, quali le Crociate e l’Inquisizione, la Riforma, l’Illuminismo, le Sette anticlericali risorgimentali ma soprattutto spiega i meriti unici del cristianesimo.

Come sottolinea Gotti Tedeschi attraverso opportuni ripassi di storia, teologia, filosofia, sociologia, e persino di economia, Cammilleri illustra “perché siamo stati così sciocchi da lasciarci distrarre da altri fedi religiose perdendo la fiducia nella nostra originale e provocando in tal modo il decadimento di quei valori che oggi rimpiangiamo”.

In conclusione l’autore del libro chiede di sostenere e aiutare la Chiesa Cattolica, ora più che mai sotto attacco, “perché è la Chiesa voluta da Dio, non da uomini”.

Per cercare di approfondire questo tema che suscita da millenni un interesse profondo, ZENIT ha intervistato Rino Cammilleri.

Se Dio esiste, di che religione è?

Cammilleri: Gran bella domanda. A farci caso, l’epoca dell’ateismo è alle nostre spalle. Oggi non c’è quasi più nessuno che non affermi di credere in Dio. Solo che, a quel punto, bisognerebbe chiedere a ciascuno: quale? Già, perché a trionfare è la religione fai-da-te, il Dio che ognuno si crea a propria immagine e somiglianza.

E questa immagine-e-somiglianza, guarda caso, è modellata dall’orizzonte culturale. Cioè, oggi come oggi, è politicamente corretta. Ma, se Dio esiste, logica vuole che siamo noi a Sua immagine e somiglianza, non Lui a nostra. Insomma, bisogna sapere cosa vuole Lui da noi, perché, se esiste, cosa noi vogliamo da Lui già lo sa. Bisogna sapere, per prima cosa, Chi è. E non c’è modo migliore che chiederGlielo.

Lei sostiene che l’unico Dio è cattolico. Perchè?

Cammilleri: Nel mio pamphlet un certo Teofilo, un uomo «in ricerca» (come si direbbe oggi) chiede a me chi è Dio. Perché a me? Perché sa che sono un credente. Io (cioè, l’Autore) rispondo per come so farlo. E gli snocciolo i motivi che hanno portato me a ritenere molto probabile che Dio, se esiste, sia cattolico. Cioè, sia esattamente Quello che da duemila anni predica la Chiesa di Roma.

Perchè non potrebbe essere musulmano, ebreo, o di qualche altra religione?

Cammilleri: Oggi, per quanto riguarda la religione, quel che manca è la domanda, non certo l’offerta. Teofilo è uno che a un certo punto, come Pascal, si è detto: se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo. In effetti, uno che si accorge della necessità di un Dio ha già compiuto gran parte del percorso. Ma, quando si guarda intorno, si trova all’interno del supermarket del Sacro, con gli scaffali che presentano una grande varietà. Per definizione, solo una può essere quella giusta, perché Dio, se esiste, non ha alcun interesse a indurci in confusione. Tutto il mio libro è teso a far sì che Teofilo si rivolga direttamente alla Fonte per conoscere la verità.

E perchè non buddista, spiritista, darwinista, adoratore di Gaia o di Carlo Marx?

Cammilleri: Con gran rispetto per tutti i credenti in Qualcosa o Qualcuno, ho ripercorso davanti a Teofilo tutti i ragionamenti che hanno indotto me (sì, perché c’è stato un tempo in cui anch’io ero «in ricerca») a scegliere un prodotto tra gli scaffali dopo avere considerato, soppesato e attentamente osservato tutti gli altri. Teofilo mi ha chiesto: tu in cosa credi e perché? E io gliel’ho detto.

Il libro presuppone che uno creda nell’esistenza di Dio, ma potrebbe essere consigliato anche per gli atei. Vero?

Cammilleri: Naturalmente, nel deserto che ho personalmente attraversato prima di giungere alla Terra Promessa c’è stata la fase atea, subito seguita da quella agnostica. Conosco bene l’ateismo e i suoi argomenti. Per me l’ateismo, di argomenti, non ne ha. Peggiore è l’agnosticismo. L’ateo è uno che sa per certo che un Dio non esiste né può esistere. L’agnostico è uno che non si pone nemmeno il problema. E, di conseguenza, vive una vita puramente (mi si perdoni l’espressione) vegetale. Senza senso. Nasce, cresce e muore, mangia, beve e si diverte (nella misura del possibile) senza sapere perché. Peggio: non gli interessa. Se io fossi Dio (ma per fortuna di tutti non lo sono) mi offenderei: almeno l’odio è un sentimento, l’indifferenza invece…

Che cosa ha il cattolicesimo che le altre religioni non hanno?

Cammilleri: A mio avviso il cattolicesimo ha dalla sua la logica. Un Dio esistente, giusto, sensato, razionale e amorevole si sarebbe comportato esattamente come dice da sempre la Chiesa Romana. Un Dio diverso da così non mi interessa. Questo è quanto ho cercato di spiegare a Teofilo nel mio lavoro. Ovviamente, Teofilo non è tenuto a darmi retta. Tuttavia, se davvero è «in ricerca», si rivolga direttamente all’Interessato. Il quale, se esiste, non avrebbe alcun motivo per non rispondergli. Se non risponde, non esiste. E il caso è chiuso.
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giovedì, novembre 05, 2009

I miei poveri versi

di Monica Cardarelli

La morte di Alda Merini ci porta a riflettere su alcuni temi quali il rapporto tra poesia e sofferenza o il ruolo della poesia o della narrativa nella società.
“I miei poveri versi non sono belle, millantate parole, non sono afrodisiaci folli da ammannire ai potenti e a chi voglia blandire la sua sete. I miei poveri versi sono brandelli di carne nera disfatta chiusa, e saltano agli occhi impetuosi; sono orgogliosa della mia bellezza; quando l’anima è satura dentro di amarezza e dolore diventa incredibilmente bella e potente soprattutto. Di questa potenza io sono orgogliosa ma non d’altre disfatte; perciò tu che mi leggi fermo a un tavolino di caffé, tu che passi le giornate sui libri a cincischiare la noia e ti senti maestro di critica, tendi il tuo arco al cuore di una donna perduta. Lì mi raggiungerai in pieno.”
Sono le parole de “I miei poveri versi”, una bellissima poesia della raccolta “Vuoto d’amore”. Una delle tante poesie con cui la Merini comunicava, con parole forti e semplici, ciò che sentiva. Non è possibile, almeno in questa sede, parlare della poesia di Alda Merini perché ogni commento risulterebbe superfluo e ne limiterebbe la forza e la grandezza.
È interessante però soffermarsi sul ruolo della poesia e la figura del poeta nella nostra società. Prima di tutto, occorre partire dal rapporto personale e stretto che lega una persona al suo essere e al modo di esprimersi e di esprimere ciò che sente e che è. Per alcuni, questo modo è la poesia, per altri la narrativa, per altri ancora la pittura o il teatro. Alla base, però, c’è sempre qualcosa che si vuole condividere, comunicare, esprimere.
Quando questo ‘qualcosa’ nasce dal profondo di se stessi e non è una pura descrizione della realtà, allora arriva a toccare il cuore di chi legge o guarda. Questo anche il senso della bellezza. Emozionarsi di fronte ad un’emozione provata in prima persona da chi l’ha rappresentata in mille maniere e la trasmette. “La bellezza salverà il mondo!” scriveva Dostoevskij intendendo per bellezza non l’aspetto esteriore o la perfezione fisica, quanto l’armonia e l’anima umana.
Per poter trasmettere la bellezza dell’anima è necessario partire da se stessi per poi passare all’osservazione degli altri e del mondo. Scavando in se stessi, a volte senza fatica, altre volte con una sofferenza indicibile, si riesce ad arrivare ad alcune sensazioni ed emozioni condivise e condivisibili. Per far ciò è comunque necessaria una grande e profonda sensibilità che permetta questo viaggio interiore.
“O poesia non venirmi addosso, sei come una montagna pesante, mi schiacci come un moscerino; poesia, non schiacciarmi, l’insetto è alacre e insonne, scalpita dentro la rete, poesia, ho tanta paura, non saltarmi addosso, ti prego.” (da “Vuoto d’amore”)
Alda Merini ha sempre considerato la sua poesia come un dono. Un dono di cui non poteva più fare a meno e da condividere. Un dono, forse, più grande di lei, che le ha permesso di vivere tutta la sofferenza della sua vita e tirarla fuori, comunicandola.

“Io ero un uccello dal bianco ventre gentile, qualcuno mi ha tagliato la gola per riderci sopra, non so.
Io ero un albero grande e volteggiavo sui mari. Qualcuno ha fermato il mio viaggio, senza nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra io canto ora per te le mie canzoni d’amore.” (da “Vuoto d’amore”)

A volte, proprio la sofferenza conduce ad esprimerla con la forma espressiva propria di ognuno. Come se esistesse uno stretto rapporto tra la sofferenza e la sensibilità e che da questo rapporto nascesse un legame, un filo che conduce all’espressione poetica o narrativa che sia, alla comunicazione. La sofferenza personale, intima di ognuno di noi diventa, con le parole di un poeta, una sofferenza condivisa e sentita anche da altri.
Personalmente continuo a pensare che il poeta e la poesia debba rivestire un ruolo nella nostra società, non certo di minore interesse. Ciò proprio perché la poesia esprime la parte più intima di noi, più bella. E di questo, abbiamo bisogno quanto di una riforma economica o sociale. Purtroppo nella nostra società non è così e lo dimostra il fatto che la stessa Alda Merini e con lei tanti altri artisti ha vissuto e vivono in situazioni di indigenza. Perché la poesia, in fondo, non interessa. Il poeta, lo scrittore, il drammaturgo o l’attore non ha un ruolo riconosciuto culturalmente perciò lo si può lasciare ai margini della società, tutt’al più, lo si guarda in un’ottica di divertimento, nemmeno di cultura. Non si è ancora capito e interiorizzato che tutto ciò è vita e che l’essere umano è anche questo.

“Il volume del canto mi innamora: come vorrei io invadere la terra con i miei carmi e che tremasse tutta sotto la poesia della canzone.
Io semino parole, sono accorta seminatrice delle magre zolle e pur qualcuno si alza ad ascoltarmi, uno che il canto l’ha nel cuore chiuso e che per tratti a me svolge la spola della gaudente fantasia.” (“Il volume del mio canto”, da “Vuoto d’amore”)

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mercoledì, ottobre 14, 2009

Grande successo a Pisa per il "Pisa Book Festival"

di Monica Cardarelli

Si è svolto a Pisa dal 9 al 12 ottobre il Pisa Book Festival, la Fiera dell’editoria indipendente che, insieme a PiùLibriPiùLiberi che si svolge a Roma nel mese di dicembre, è un importante appuntamento per la piccola e media editoria italiana e non (pisabookfestival.it). Quest’anno il Festival, ha proposto un doppia opportunità: la consueta rassegna di libri e un festival tutto dedicato all’editoria per ragazzi, il Pisa Book Festival Junior. Paese ospite di quest’anno, il Belgio. Anche questa volta il Festival ha registrato un notevole afflusso di partecipanti. Più di 170 case editrici indipendenti presenti con i loro libri in catalogo; 30 case editrici per bambini e ragazzi; laboratori e incontri dedicati alla scuola; agenzie letterarie; la Biblioteca Universitaria di Pisa. E ancora tante altre opportunità tra cui incontri con gli autori, Caffè Letterario e presentazioni di libri quali, fra i tanti, “La contessa di ricotta” di Milena Agus (Nottetempo editore), reading quali “La ragazza con la treccia” racconti di Dacia Maraini a cura di Il Narratore Audiolibri e, a conclusione del Festival, l’incontro con Tiziano Scarpa che, oltre ad aver simpaticamente dialogato coi numerosi lettori presenti in sala e parlato del suo libro, ha letto alcuni brani del suo Stabat Mater vincitore del Premio Strega 2009 accompagnato dalla musica di Vivaldi.
Quest’anno, ad arricchire la manifestazione culturale è stata la presenza della casa editrice Keller che ha tradotto e pubblicato nelle sue collane “Il paese delle prugne verdi” di Herta Muller, Premio Nobel per la letteratura.
L’appuntamento è al 22, 23 e 24 ottobre 2010 sempre con un’edizione ’duplicata’ del Festival.

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lunedì, ottobre 12, 2009

Comunità cristiane nel mondo musulmano

Il libro "Lettere da Gibuti" di Renato Zilio ci apre le porte dell'Africa e delle comunità cristiane: una testimonianza vera e difficile all'interno del mondo islamico. Un libro da gustarsi e da acquistare nel mese di ottobre missionario per compiere un gesto di solidarietà.

Gibuti è il nome di una giovane repubblica africana e, allo stesso tempo, della sua capitale nel Corno d’Africa, tra Somalia, Etiopia e Eritrea.Territorio dell’Islam, sbarcato già nel VII secolo dalla vicina penisola Arabica. Qui si incontra povertà, disoccupazione, emigrazione, kat, prostituzione: su tutto questo, però, si distende magnifico il canto delle moschee ”Dio è grande!” come una strana e spendida corale. Solo la fede sostiene questo meraviglioso popolo e una solidarietà quotidiana... Ma c’è anche la presenza di uomini e donne, che fanno miracoli altrettanto quotidiani: sono cristiani. I loro sono gesti di collaborazione, di aiuto, di uno sguardo o una parola che incoraggiano. Sono suore, giovani volontari, missionari, piccole comunità cristiane, che si fanno in cento nel campo della sanità, dell’insegnamento, dell’aiuto concreto alle varie povertà.
Spiccano nella lettura di Lettere da Gibuti alcuni volti come quelli delle Suore di Gibuti, “donne di carità, di frontiera e di obbedienza”. Tra di loro la figura di suor Anna, anziana donna veneta di gran cuore e altrettanto temperamento, capace, talvolta, di presentarsi alla polizia per fare le sue rimostranze: “Voi trattate come animali questi emigranti!” I poliziotti la ascoltano rispettosamente e restano interdetti. L’impegno delle suore cristiane in questa terra musulmana è assicurare la presenza viva del Vangelo non solo attraverso le attività, ma anche l’impegno vissuto nella gioia e realizzato nell’amore.

Vivere da cristiani in un ambiente musulmano è qualcosa di veramente originale. È la vocazione coraggiosa di una Chiesa povera, minoritaria, senza ambizioni, di un cristianesimo che riscopre il messaggio del Vangelo: la passione per l’uomo, per tutti gli uomini senza distinzioni. Volti e situazioni differenti sono presentati in queste Lettere con pennellate rapide, efficaci ed uno sguardo commosso come di eroi in un mondo di umili: sono i discepoli del Signore nella terra del Profeta, appassionati del “dialogo della vita” con un popolo radicalmente differente. Nella terra dove i credenti vivono unicamente la grandezza di Dio, essi si fanno testimonianza di un Dio che è Amore.

Un tocco poetico si allea sempre ad una riflessione lucida ed efficace nel comprendere una grande verità: “I sistemi si oppongono, gli uomini si incontrano”. Pregevole, infine, la post-fazione di Giulio Albanese, sulla problematica delle Afriche (volutamente al plurale), che ricorda quanto diceva lo scrittore senegalese Cheick Anta Diop a proposito dei rapporti Nord-Sud: “Non abbiamo avuto lo stesso passato, noi e voi, ma avremo necessariamente lo stesso futuro”.
Da un’esperienza di missione è nato questo libro e ne è testimonianza viva, concreta e appassionante. Si fa anche gesto missionario: i diritti di Autore sono inviati alla diocesi di Gibuti per la vita delle piccole comunità cristiane. Ma diventa anche strumento utilissimo per le nostre parrocchie, per una sensibilizzazione missionaria e migratoria, per una apertura sul panorama multireligioso attuale. In fondo è entrare in un mondo molto differente dal nostro, percorrendolo con lo sguardo, il cuore e la preghiera. Alla fine sarete senz’altro differenti. Si avvera, infatti, quella convinzione essenziale:“Un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi”.

LETTERE DA GIBUTI. Comunità cristiane nel mondo musulmano di R. Zilio, Ed. Messaggero, 2009, 7 euro.

Per richieste in quantità con invio gratuito e prezzo speciale alle Ed. Messaggero, email emp@santantonio.org
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giovedì, ottobre 08, 2009

Ritrovarsi con Francesco


di Monica Cardarelli

Da quando sono rientrata da Reggio Emilia il 27 settembre mi propongo ogni giorno di scrivere del Festival Francescano, ma mi accorgo ogni volta che è molto difficile. Sarebbe riduttivo un semplice elenco di tutti i relatori presenti, delle conferenze ascoltate, degli spettacoli teatrali e dei concerti a cui ho assistito, delle mostre che ho avuto la fortuna di visitare. Senza nulla togliere al loro valore, anzi, il programma era ricchissimo e denso in ogni sua espressione. Ma non mi è facile raccontare le emozioni suscitate da alcune immagini, espressioni, parole e suoni dello spettacolo teatrale “Francesco di terra e di vento” del Teatro Minimo. Semplice, essenziale ma evocativo e diretto, che lascia un segno perché smuove qualcosa che anche noi pensiamo o crediamo di Francesco. Che sia una conferma o una novità, è pur sempre un’emozione che arriva grazie alla bravura degli attori e del regista e drammaturgo.
Potrei citare tutti i relatori presenti al Festival. Ce ne erano veramente tanti e di elevato livello. Da Roberto Filippetti, Pietro Maranesi, Lucio Saggioro a Giorgio Zanetti, Fulvio De Giorgi, Giovanni Salonia e ancora Maria Gabriella Bortot, Berardo Rossi, Chiara Frugoni, Pietro Maranesi e Giuseppe Failla, Orlando Todisco, Franco Cardini e Stefano Zamagni.
Non basterebbe però neppure relazionare dettagliatamente su ciascun intervento perché non sono solo le parole su Francesco che hanno detto che mi hanno in qualche modo lasciato un segno, quanto piuttosto la loro risonanza dentro di me, qui ed ora.
Le immagini degli affreschi della mostra “L’arte e la Regola” o i quadri di Gino Covili su Francesco e Chiara; il silenzio della Chiesa dei Cappuccini sempre aperta e con la possibilità di assistere all’adorazione animata dalle clarisse di Sant’Agata Feltria; la gioia e l’allegria dei ragazzi che hanno animato, con canti di Taizé e piccole rappresentazioni, la preghiera francescana del sabato pomeriggio momento, credo, in cui si è raggiunta la maggiore affluenza di partecipanti ad un unico evento; il fruscìo delle tonache dei frati (veramente numerosi) per le strade di Reggio; il sorriso e la gentilezza di tutti i volontari che hanno reso possibile questo grande evento, davvero curato nei minimi dettagli; la voce di Marco Alemanno che interpretava le poesie di Alda Merini su Francesco e in sottofondo le musiche di Lucio Dalla che accompagnavano.
Ecco, queste ed altre le sensazioni che sono rimaste e che di tanto in tanto ritornano. Così come alcune parole dette su Francesco. Come ad esempio, la difficoltà dell’uomo di oggi di pensare ad un mondo relazionale positivo, la sua difficoltà a convivere per motivi positivi. Forse, non si è ancora imparato a convivere. “La fraternità è la grande sfida che Dio ha affidato all’essere umano” ci ha detto Giovanni Salonia aggiungendo che Francesco ha dato un significato nuovo al termine ‘comunitas’. Prima si pensava che si dovesse stare insieme per svolgere un compito. Francesco ci dice con la sua vita che il compito che dobbiamo svolgere è stare insieme.
Questo nuovo senso di comunità include le varie soggettività. Francesco pensa ad un ‘Noi’ che non si contrappone ad un ‘loro’, un ‘Noi’ inclusivo che non vuole cambiare l’altro, ma conoscerlo e accettarlo. Solo dalla relazione con l’altro possono scaturire delle regole che non saranno mai imposte ma accettate con e per amore. Per creare relazioni positive, nuove, autentiche serve del tempo. Ascolto. Ascoltare e ascoltarsi. E non aver paura di chiedere e ammettere di avere bisogno. Oggi, sembra diventato più facile aiutare che essere aiutati. Francesco quando incontra il lebbroso lo abbraccia ma non lo guarisce, non lo aiuta potrebbe sembrare ai nostri occhi. Infatti, è Francesco che viene guarito, lui viene aiutato da un abbraccio. Dalla sua disponibilità ad accogliere e a farsi aiutare.
Non sempre si ha il tempo di conoscere e capire l’altro. A volte, la vera sfida è proprio quella di camminare insieme accettando l’altro così come è prima di una comprensione razionale. Questa la vera fraternità che Francesco e Chiara ci hanno trasmesso, palpabile anche nell’atmosfera che si respirava al Festival. Accoglienza, apertura all’altro sempre nella gioia dell’incontro e nel senso di meraviglia della conoscenza dell’altro. L’atmosfera di quelle giornate e l’atteggiamento sinceramente fraterno di tutti i partecipanti della grande famiglia francescana, dai frati alle clarisse, dai giovani della Gi.Fra. alle suore francescane, dagli appartenenti all’O.F.S. ai frati minori, tutti insieme hanno testimoniato che partendo dalle piccole cose e dalle relazioni profonde quanto fraterne, si può vivere e convivere positivamente. Una piccola rivoluzione per i nostri tempi. Piccola ma forte che ha donato forza a tutti noi facendoci toccare con mano che ciò che abbiamo vissuto al Festival, lo possiamo riportare nella vita di tutti i giorni.
Anzi, lo dobbiamo fare perché, come ci ha ricordato Franco Cardini in occasione della Tavola Rotonda conclusiva, come dice il libro di Qoelet “C’è un tempo per ogni cosa” e questo per noi cristiani, non è il tempo del silenzio ma della parola.

... (continua)
martedì, settembre 22, 2009

Arnoldo Foà legge nella chiesa di San Francesco a Faenza i "Fioretti di S.Francesco"

Arnoldo Foà sarà la voce recitante, con Giorgio Fabbri all'organo, nei "Fioretti di S.Francesco"

Fraticappuccini.it - Sarà lo straordinario Arnoldo Foà il protagonista del primo appuntamento della rassegna "I Concerti della Scuola Grande", un progetto musicale promosso dalla Scuola Grande di San Filippo e dall'assessorato alla Cultura del Comune di Faenza, in collaborazione con le associazioni Amici dell'Arte, Faenza Lirica, G.Fattorini e Lauda Sion, con il contributo della Banca di Credito Cooperativo ravennate e imolese e di Confcooperative. Arnoldo Foà sarà la voce recitante, con Giorgio Fabbri all'organo, nei "Fioretti di S.Francesco", il concerto in programma venerdì 25 settembre prossimo, alle ore 21.00, nella chiesa di San Francesco, a Faenza, in occasione degli 800 anni del riconoscimento della Regola francescana (1209-2009).

Questa prima edizione dei "Concerti della Scuola Grande" vuole essere un momento di dialogo con tutte le associazioni storiche della nostra città che operano nel campo della musica classica.

Sette gli appuntamenti in programma, da fine settembre a dicembre 2009, che offriranno altrettanti punti di osservazione dell'universo musicale nell'intento di trasformare in ricchezza le diverse identità degli stili e delle epoche, così come i gusti e gli interessi del pubblico. La rassegna intende inoltre valorizzare luoghi diversi della città in un abbinamento sempre più appropriato fra letteratura musicale e gli splendidi spazi architettonici di Faenza.
L'ingresso è a offerta libera per tutti i concerti programmati.

La scuola Grande di San Filippo, centro culturale di formazione artistica con sede a Faenza, in viale delle Ceramiche n. 25, destinerà i fondi raccolti con l'iniziativa a sostegno dell'attività musicale dell'istituto "Magnificat" di Gerusalemme, opera della custodia francescana di Terra Santa.

Questi gli altri appuntamenti della rassegna: sabato 24 ottobre (ore 21.00), chiesa di S.Agostino, il Coro 'Il Nuovo Echo' con "La grande polifonia sacra otto-novecentesca"; domenica 1 novembre (ore 17.00), sala San Carlo, Collegium 'In Harmonia Salus' ("Il '600 emiliano"); Domenica 8 novembre (ore 17.00), all'auditorium Torricelli recital lirico con i vincitori del Concorso "R.Tebaldi 2009" di San Marino; sabato 21 novembre (ore 21.00), sala San Carlo, concerto del Coro Lauda Sion ("Festa di S.Cecilia"); domenica 6 dicembre, sala San Carlo (ore 17.00), Piero Bonaguri chitarra ("Musica dal XX secolo"); sabato 19 dicembre (ore 21.00), chiesa del Suffragio, il quartetto vocale The Ring Around Quartet ("Natale in canto").

... (continua)
lunedì, settembre 21, 2009

Lo sguardo dei bambini


di Monica Cardarelli

Quasi ogni giorno assistiamo ad episodi di violenze fisiche, psicologiche e affettive perpetrate sul corpo e sul cuore dei bambini. Bambini venduti per il trapianto di organi; rapiti per mendicare per strada e praticare piccoli furti; figli sottratti ai propri genitori che vengono scaraventati improvvisamente dalla loro infanzia al mondo ‘dei grandi’. Purtroppo sembrano innumerevoli le situazioni di cui sono vittime i bambini e gli adolescenti. Istintivamente, sentiamo che tutto ciò è qualcosa di disumano. Perché ne siamo così colpiti? Forse perché ci sembra che ci si avventi sulle persone più deboli, fragili e indifese o perché tutto questo riduce la persona umana ad un oggetto da vendere o da utilizzare?
I bambini hanno uno sguardo diverso. Uno sguardo sul mondo e su se stessi che è puro, ingenuo e pulito. Rappresentano quell’angolo di intimità che custodisce la nostra infanzia, la purezza che si è persa nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, in cui quasi tutti ormai ci troviamo a dover combattere perché, giustifichiamo a noi stessi, la vita è questa. E noi, i grandi, stiamo con i piedi per terra, per non farceli mettere sulla testa dagli altri.
La violenza sui bambini ci colpisce non solo per la crudeltà ma perchè va a toccare l’innocenza, l’ingenuità, la bontà di ogni essere umano. Quando i bambini sono oggetto di violenza o di privazione ci sentiamo colpiti noi stessi in profondità, in quella parte di anima che ancora pulsa.
Sentiamo che viene colpita la vita nel suo momento più intenso, di crescita, di sviluppo, di cambiamento, di miglioramento e di apertura al bello e al buono: all’eternità.
“Non sono buona, sono giusta. Non mi piacciono i preti, non mi piacciono gli ebrei, non mi piacciono i tedeschi, ma non tollero chi se la prende con i bambini.” Afferma con piglio la signorina Marcelle, la farmacista di Chemlay, un piccolo paese vicino Bruxelles in cui si svolge “Il bambino di Noé” di Eric-Emmanuel Schmitt. È un breve racconto dal tono fiabesco e leggero. La storia di Joseph, un bambino ebreo di 10 anni affidato dai genitori alle cure di un Padre Pons, il parroco di Chemlay, che salverà le vite di numerosi bambini affidati al suo orfanotrofio. Il dramma familiare e di un popolo raccontato da un bambino, vissuto con ingenuità e al tempo stesso affrontato con realismo.
Lo stesso realismo e la nostalgia dell’essere bambini che ritroviamo in queste parole: “Come siamo tristi in quei giorni senza più nome, né viso, né tessera. Era meglio quando ci mandavano in un’altra stanza e non ascoltavamo niente. Ora sappiamo che la mamma andrà a vendere l’anello della zia. Basta, ora non c’è più.” E’ il racconto della bambina ebrea protagonista del libro “Una bambina e basta” di Lia Levi. Anche lei viene nascosta dalla mamma, con la sorella, in un convento cattolico alle porte di Roma per sfuggire alla deportazione.
Bambini catapultati improvvisamente dalla loro infanzia, alla durezza del mondo. Ma in quella durezza e crudeltà i due piccoli protagonisti riescono a trovare un appoggio in alcune persone che vanno oltre al colore della pelle, alla razza o alla religione, e che proprio per questo rispettano l’essere umano in ogni sua forma.
“Cosa c’è sotto una chiesa, Joseph?” – “La cantina?” – “No, la cripta.” Arrivammo al livello più basso. Dalle profondità soffiava un fresco odore di funghi. L’alito della terra? “E che c’è nella mia cripta?” – “Non lo so.” “Una sinagoga.” Accese qualche candela e vidi la sinagoga segreta che il Padre aveva messo su. Sotto un manto di ricche stoffe ricamate era conservato un rotolo della Torah, una lunga pergamena ricoperta di scrittura sacra. Una fotografia di Gerusalemme portava l’indicazione di dove girarsi per pregare, perché è passando da quella città che le preghiere risalgono fino a Dio. Dietro di noi, una quantità di oggetti era ammonticchiata su alcune mensole. “Cos’è?” – “La mia collezione. (…) Ogni sera mi ritiro qui per meditare sui testi ebraici. E durante il giorno, nel mio ufficio, imparo l’ebraico. Non si sa mai…” – “Cosa non si sa mai?” – “Se il diluvio continua, se nell’universo non resta più un solo ebreo che parli l’ebraico, io te lo potrò insegnare. E tu lo potrai trasmettere.” (Il bambino di Noé, Eric-Emmanuel Schmitt)
Fortunatamente, ci sono e sempre ci saranno persone così, ma è innegabile ed evidente quanto un bambino possa soffrire nel momento stesso in cui gli viene inflitta la sofferenza, di qualunque genere essa sia, e soprattutto quanto tutto questo lasci segni indelebili per tutta la vita.
“Ho visto mia madre smorta come un pupazzo di cenci e certe notti non riesco a prendere sonno: ora la paura non è più quel nemico irruento che mi aveva afferrato alla gola, è una nebbiolina sottile che s’infila veloce e insidiosa in tutti gli spazi della giornata lasciati vuoti da gesti e pensieri.” (Una bambina e basta, Lia Levi)
“Un trattore scendeva lungo la strada. Tra poco ci sarebbe passato vicino. Lo guidava un uomo. Sebbene senza barba e vestito da contadino, somigliava abbastanza a mio padre perché lo riconoscessi. Infatti lo riconobbi. Rimasi paralizzato. Non mi andava per niente di incontrarlo. “Purché non mi veda!” Trattenni il fiato. Il trattore passò sferragliando sotto il nostro albero e proseguì il suo cammino verso la valle. “Meno male, non mi ha visto!” eppure non era che dieci metri più in là, potevo ancora chiamarlo, riacchiapparlo. Con la bocca secca, evitando di respirare, aspettai che la distanza rendesse il veicolo minuscolo, impercettibile. (…)
Parecchi anni dopo, scoprii che era davvero mio padre l’uomo che mi aveva sfiorato quel giorno. Un padre che rifiutavo, un padre che speravo lontano, assente o morto…Quel disprezzo volontario, quella reazione mostruosa che ho invano cercato di giustificare con il panico e la mia fragilità dell’epoca, rimane l’atto di cui conserverò la vergogna – intatta, calda, bruciante – fino all’ultimo mio respiro.” (Il bambino di Noé, Eric-Emmanuel Schmitt)
Resta solo da augurarsi che si comprenda l’importanza che la nostra società deve dare ai bambini, al rispetto e all’attenzione in quanto persone ma anche alla loro formazione umana, oltre che culturale. Un’educazione al mondo, alla vita. Capire l’importanza di mantenere e coltivare quella curiosità di sbirciare sul mondo, la purezza dello sguardo dei bambini per poter poi diventare gli uomini e le donne di domani, consapevoli del proprio posto nella vita sì ma avendo vissuto appieno la propria infanzia così da poterla custodire gelosamente in quell’angolo d’intimità.

... (continua)
venerdì, settembre 11, 2009

Il viaggio nel tempo

di Monica Cardarelli

In questi giorni termina quasi per tutti il periodo più lungo generalmente dedicato alle vacanze. È l’occasione e il momento per porsi delle domande e fare delle riflessioni. Qual è il senso che diamo alla vacanza? Che valore ha il riposo nella nostra vita? In sintesi, che valore attribuiamo al tempo e come lo utilizziamo? Per molti, poi, la vacanza coincide con una partenza, un viaggio. Allora, che senso ha il viaggio? Che significa viaggiare, partire e lasciare? Tornare e ritrovare? Innanzitutto partirei dal valore del tempo. Abitualmente, nella nostra società la giornata scorre veloce e densa di impegni: lavorativi, familiari, domestici e di svaghi. Si arriva a sera stanchi, con la sensazione di aver fatto tutto, anche più di quanto avremmo potuto. Si cerca di condensare
il più possibile tutti gli impegni e gli spostamenti nelle nostre città per evitare sprechi di tempo, inutili a nostro avviso. Tutto il tempo della giornata deve essere riempito, pieno e fitto di cose da fare.

In questo modo anche fare la spesa o andare in palestra diventa un impegno per noi e per i nostri familiari. Ci è stato insegnato a non ‘sprecare’ il tempo, perciò quando accompagniamo nostro figlio a nuoto non aspettiamo in piscina guardando il piccolo nelle sue imprese sportive e condividendo con lui i suoi piccoli progressi, ma ci precipitiamo a fare altre commissioni perché non possiamo ‘sprecare’ tempo nell’attesa.

Il tempo è un grande contenitore ma più di tanto non può essere riempito e, soprattutto, non si possono fare più cose contemporaneamente e in luoghi diversi. Sembra una banalità, ma è quello che facciamo. Ecco quindi che se scegliamo di fare le nostre commissioni priviamo nostro figlio e noi di un momento di condivisione umana. Facciamo una scelta che, a mio avviso, è più di ‘quantità’ che di ‘qualità’.
Infatti, tutto sta a definire i criteri delle nostre scelte. L’importante è che ne siamo consapevoli. La consapevolezza, infatti, ci dà una maggiore libertà e responsabilità nei confronti della nostra vita e di quella delle persone con cui interagiamo. La mia sensazione è che oggigiorno non si impieghi più il tempo per annoiarsi, per aspettare, per leggere, giocare o per il riposo. Tutto ha bisogno di tempo ma noi abbiamo fretta e non siamo disposti a dedicare tempo a niente e a nessuno. C’è fretta nel cucinare (il microonde è perfetto perché mentre cuoce il cibo io faccio altro) e non dedichiamo la giusta attenzione alla preparazione dei cibi, ad assaporare gli odori e le sensazioni che ci restano nelle mani mentre sbucciamo la cipolla e le lacrime ci scendono sul viso; la stessa fretta che si ha nelle relazioni umane. Ci vuole tempo per la conoscenza, ci vuole tempo da dedicare all’altro. Ogni rapporto umano, ogni tipo di relazione ha bisogno di tempo per nascere e crescere.
“E’ il tempo che hai dedicato alla tua rosa che ha reso la tua rosa così importante.” disse la volpe al Piccolo Principe svelando in seguito il suo mistero: “ ‘addomesticare’ vuol dire creare dei legami”. E per far ciò c’è bisogno di tempo. Tempo per se stessi e tempo per gli altri. Soprattutto, tempo di qualità o qualità del tempo che può rendere i rapporti profondi perché per scavare nella propria vita e nella vita degli altri, per andar in profondità, serve tempo e la pazienza dell’attesa, l’attesa per aspettare il tempo giusto.
Se riportiamo la stessa ‘qualità del tempo’ nelle vacanze, ci accorgiamo che anche il momento non dedicato al lavoro può essere molto ricco e denso senza per questo essere pieno e fitto di impegni. Prima di tutto, penso che si debba dedicare del tempo al riposo. Il riposo vero, quell’assenza di ‘cose da fare’ di cui abbiamo tanto bisogno. È solo nel riposo che possiamo gustare quella parte di noi che riesce ad emergere in alcuni momenti e a relazionarsi con l’ambiente esterno in tranquillità. Poi, è dal riposo che, generalmente, emerge un’altra visione della vita, un approccio diverso, di qualità.
Perciò, è utile e sano che ciascuno trovi la sua giusta dimensione di riposo e di essenza per poter vivere appieno il periodo di vacanza e gustare il piacere delle relazioni umane prive di tensioni e stanchezza. Sono le sensazioni positive di questi momenti che continueranno poi ad alimentare i rapporti quotidiani in momenti diversi.
Con questa visione positiva della propria vita, del proprio tempo e della vacanza, è sempre piacevole approfittare di questo periodo generalmente più ampio per viaggiare.
Il viaggio è sempre affascinante. È il momento di distacco da ciò che avevi (le tue abitudini, le tue piccole certezze quotidiane) e allo stesso tempo è un momento di apertura verso luoghi e persone sconosciuti. Un mondo nuovo che ti si apre davanti e che, in questo momento, puoi conoscere. Tutto questo ha un’attrazione infinita per l’essere umano. Perché è affascinante la conoscenza di questo nostro mondo e di persone con una cultura e un modo di vivere diverso dal nostro.
Questi giorni mi sono tornate alla mente delle parole del poeta Kostantinos Kavafis della sua “Itaca”: “Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e esperienze. I Lestrigoni e i ciclopi o la furia di Nettuno non temere, non sarà questo il genere di incontri se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.” Nel viaggio da intraprendere, ciò che conta è la predisposizione d’animo, lo spirito con cui si parte. Il viaggio, poi, è spesso inteso come metafora di un percorso di vita. In questo percorso, come scrive Kavafis, si cresce perché ciò che conta, non è Itaca, ma il viaggio.
“Sempre devi avere in mente Itaca – raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.”
(Itaca, Kostantinos Kavafis)
In questo senso tutta la nostra vita è un viaggio, un percorso. Così come realmente in ogni momento del viaggio si può incontrare, conoscere e fare esperienze, allo stesso modo la ricchezza del viaggio reale si perpetua nella vita, nel quotidiano. Anche se non è una vacanza, ma un viaggio sì. Perciò è importante il criterio delle nostre scelte nell’uso quotidiano del tempo, della vita. La consapevolezza delle proprie scelte dà alla vita quotidiana un gusto in più, quel sapore che abbiamo perso nella fretta di cucinare tutto al microonde, il piacere di sentire che la nostra vita, il tempo che ci sta passando tra le mani, noi, lo viviamo, lo assaporiamo ogni istante e soprattutto, è nostro e lo vogliamo così.
“E se non puoi la vita che desideri, cerca almeno questo, per quanto sta in te: non sciuparla nel troppo commercio con la gente con troppe parole in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro in balìa del quotidiano gioco balordo degli incontri e degli inviti, fino a farne una stucchevole estranea.” (E se non puoi la vita che desideri, Kostantinos Kavafis)

... (continua)
giovedì, agosto 13, 2009

Chiara e la Perfetta Letizia

della nostra redattrice Monica Cardarelli

Spesso si parla di Francesco e Chiara e dello stato di perfetta letizia, ma forse non sempre si attribuisce a queste parole il vero significato che rivestirono per loro. Francesco si formò seguendo un’educazione cortese che prevedeva come tratti caratteristici la letizia, il carattere allegro e generoso. Allegrezza e generosità erano qualità di un vero cavaliere. A seguito della conversione, però, Francesco dette un senso cristiano a queste caratteristiche. La gioia e la letizia erano originate in Francesco dalla condivisione con i povere dei propri beni. Giova ricordare, però, che la povertà o la penitenza non sono intese come mortificazione personale o sacrificio. La condivisione materiale porta ad una condivisione spirituale delle piccole gioie del donare e del ricevere. Questa gioia e serenità personale e condivisa è la letizia vissuta da Francesco e Chiara a cui però, entrambi, giungeranno dopo un percorso spirituale. La letizia permette di superare le prove, il dolore, il peccato ed è talmente difficile da conquistare che, una volta raggiunta, deve apparire anche esternamente.

Chiara riprende questo aspetto dell’insegnamento di Francesco e lo sviluppa nella sua spiritualità e nella forma di vita monastica. Anche per lei fu un atteggiamento costante che visse e che volle trasmettere alle Sorelle. Infatti, non solo ricorda nel Testamento di come San Damiano sia nato proprio da un trasporto di grande letizia di Francesco ma, in seguito, vivrà questa condizione nella sua vita monastica.

“Mentre, infatti, lo stesso Santo (Francesco), che non aveva ancora né frati né compagni – quasi subito dopo la sua conversione -, era intento a riparare la chiesa di San Damiano, dove, ricevendo quella visita del Signore, nella quale fu inebriato di celeste consolazione, sentì la spinta decisiva ad abbandonare del tutto il mondo, in un trasporto di grande letizia e illuminato dallo Spirito Santo, profetò ciò che in seguito il Signore ha realizzato.” (Testamento S. Chiara, 9-11)

Strettamente legata all’idea di letizia è la povertà. Per Chiara, come per Francesco, la perfetta letizia corrisponde con la vera povertà beata. “Se, dunque, tale e così grande Signore, scendendo nel seno della Vergine, volle apparire nel mondo come uomo spregevole, bisognoso e povero, affinché gli uomini (…) divenissero in lui ricchi col possesso dei reami celesti esultate e godete molto, ripiena di enorme gaudio e di spirituale letizia.” (Lettera I a Agnese di Praga, 19-22)

L’anello di congiunzione per Chiara si chiude con le Sorelle. La comunità, il luogo in cui Chiara effettuò il suo percorso fu per lei molto importante per il presente vissuto e condiviso e per il futuro del suo sogno di vita monastica. Chiara nella sua vita si affidò con umiltà alle altre Sorelle di cui era guida e madre. Si abbandonò alle cure e all’aiuto di cui aveva bisogno, a causa delle sue infermità, permettendo loro, così, di proseguire la sua opera e di permetterle di vivere e di lavorare. “E amandovi a vicenda nell’amore di Cristo, quell’amore che avete nel cuore, dimostratelo al di fuori con le opere, affinché le sorelle, provocate da questo esempio, crescano sempre nell’amore di Dio e nella mutua carità.” (Testamento S. Chiara, 59-60).
... (continua)
martedì, agosto 11, 2009

Chiara e Agnese di Praga

di Monica Cardarelli

Una delle caratteristiche più affascinanti della vita di Chiara è l’attenzione alla persona umana e alle relazioni profonde. Nonostante Chiara abbia vissuto reclusa nel monastero di San Damiano per 42 anni, è riuscita a trovare dei modi per raggiungere il mondo fuori dal monastero. Chiara ha inventato forme sempre nuove per esprimere il suo amore. Di Chiara ci sono giunti alcuni scritti: la Regola, il Testamento, la Benedizione e alcune lettere. La lettera alla abbadessa Ermentrude di Bruges e solo quattro lettere ad Agnese di Praga, databili con molta probabilità fra il 1234 e il 1253, pochi mesi prima della morte di Chiara. Agnese di Praga, figlia del Re di Boemia Ottocaro, fidanzata all’Imperatore Federico II, alla morte di suo padre, nel 1229, non si era ancora sposata. Agnese si rivolse al papa Gregorio IX che la prosciolse dall’impegno.
Infatti, nel 1232, i frati minori giunti a Praga le avevano parlato di Francesco e di Chiara. Agnese ne rimase colpita e affascinata così, dopo aver fatto costruire un ospedale, fece edificare un monastero e nel 1234 lì venne consacrata. Dopo due mesi il papa la mise a capo della comunità di religiose che aveva fondato e lei volle seguire la forma di vita monastica delle Damianiti.
“All’udire la stupenda fama della vostra santa vita religiosa, sono ripiena di gaudio nel Signore e gioisco. (…) Il motivo è questo: mentre potevate più d’ogni d’altra godere delle fastosità, degli onori e delle dignità mondane, ed anche accedere con una gloria meravigliosa a legittimi sponsali con l’illustre Imperatore, tutte queste cose voi avete invece respinte, e avete preferito con tutta l’anima e con tutto il trasporto del cuore abbracciare la santissima povertà e le privazioni del corpo, per donarvi ad uno sposo di ancor più nobile origine, al Signore Gesù Cristo, il quale custodirà sempre immacolata e intatta la vostra verginità.” (Lettera I, 3, 5-7)
Quando però, nel 1238 Agnese redasse una sua Regola riprendendo la forma di vita a San Damiano, il papa, con il timore che fosse troppo severa e troppo duro per delle donne vivere senza garanzie, non gliela approvò e le propose la Regola di Ugolino, in uso fino ad allora.
Nonostante tutto, Agnese accetta per obbedienza la Regola propostale ma non manca di far rispettare nel suo monastero il proposito della ‘beata povertà’.
“O povertà beata! A chi t’ama e t’abbraccia procuri ricchezze eterne. O povertà santa! A quanti ti possiedono e desiderano, Dio promette il regno dei cieli ed offre in modo infallibile eterna gloria e vita beata. O povertà pia! Te il Signore Gesù Cristo, in cui potere erano e sono il cielo e la terra, (..) si degnò abbracciare a preferenza di ogni altra cosa. È magnifico davvero e degno di lode questo scambio: rifiutare i beni della terra per avere quelli del cielo, meritarsi i celesti invece dei terreni, ricevere il cento per uno e possedere la vita beata per l’eternità” (Lettera I, 15-17; 30)


Al di là degli avvenimenti che hanno unito le due donne nel loro percorso di vita monastica, la cosa che più interessa è la condivisione che si è creata in questa seppur breve corrispondenza di cui ci restano solo le lettere di Chiara.
Da questi scritti emerge il carattere di Chiara, i suoi sentimenti e le sue convinzioni. Anche da queste parole di Chiara si può notare quanto la povertà le stia a cuore come condizione per assimilare la propria vita a quella del Cristo e per avvicinarsi a Lui.
“Le liete notizie del tuo benessere, del tuo stato felice e dei tuoi prosperi progressi nella corsa che hai intrapresa per la conquista del celeste palio, mi riempiono di tanta gioia (…). Davvero posso rallegrarmi, e nessuno potrebbe strapparmi da questa gioia, poiché ho raggiunto quello che ho desiderato sotto il cielo, dal momento che vedo te trionfare in maniera, direi, terribile e incredibile (…). Chi potrebbe, dunque, impedirmi di rallegrarmi per sì mirabili motivi di gaudio? Gioisci, perciò, anche tu nel signore sempre, o carissima. Non permettere che nessun’ombra di mestizia avvolga il tuo cuore (…).” (Lettera III, 3-11)
Quando Agnese deve sottomettersi per obbedienza, come fece Chiara d’altronde prima dell’approvazione della sua Regola che avvenne in punto di morte, a vivere la Costituzione di Ugolino, Chiara cercherà con le sue parole di darle forza per aiutarla a vivere secondo la santa povertà. È interessante come Chiara utilizzi molteplici parole e verbi che richiamano un’azione di movimento: “E giacché una sola è la cosa necessaria, (…) memore del tuo proposito, (…) tieni sempre davanti agli occhi il punto di partenza. I risultati raggiunti, conservali; ciò che fai, fallo bene; non arrestarti; ma anzi, con corso veloce e passo leggero, con piede sicuro, che neppure alla polvere permetta di ritardarne l’andare, cautamente avanza confidente, lieta e sollecita nella via della beatitudine.” (Lettera II, 10-14)
C’è nella vita di Chiara e nella forma monastica che andava delineando una molteplicità di aspetti concreti vissuti nella clausura di San Damiano.
Non è facile immaginare una vita di clausura attiva ma, a ben pensarci, anche la preghiera e la meditazione sono momenti che interessano e investono tutto il proprio essere, dall’anima al corpo, dalle emozioni (Chiara piangeva quando pregava) all’azione di guardare, contemplare. Anche la contemplazione è un’azione attiva, che mette in moto tutto il proprio essere. “Colloca i tuoi occhi davanti allo specchio dell’eternità, colloca la tua anima nello splendore della gloria, colloca il tuo cuore in colui che è figura della divina sostanza e trasformati interamente, per mezzo della contemplazione, nella immagine della divinità di lui. Allora anche tu proverai ciò che è riservato ai soli suoi amici e gusterai la segreta dolcezza che Dio medesimo ha riservato fin dall’inizio per coloro che lo amano.” (Lettera III, 12-14).
Una trasformazione, quindi, che è azione e che procede da un’altra azione, quella di ‘collocare’ gli occhi e il cuore in Cristo. Un amore, quello di Chiara che parte da Dio per giungere a Lui passando attraverso se stesso e i fratelli, attraverso l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. L’amore fraterno è figlio dell’amore di Dio e per Lui. In Chiara questo amore è grande, immenso, indescrivibile con parole ma trasuda da tutto ciò che ci resta di lei: la sua umanità e la sua santità.
“Te veramente felice! Ti è concesso di godere di questo sacro convito per poter aderire con tutte le fibre del tuo cuore a colui, la cui bellezza è l’ammirazione instancabile delle beate schiere del cielo. L’amore di lui rende felici, la contemplazione ristora, la benignità ricolma. (…) Ogni giorno porta la tua anima, o regina, sposa di Gesù Cristo in questo specchio e scruta in esso continuamente il tuo volto (…).In questo specchio poi rifulgono la beata povertà, la santa umiltà e l’ineffabile carità; e questo tu potrai contemplare, con la grazia di Dio, diffuso su tutta la superficie dello specchio. Mira, in alto, la povertà di Colui che fu deposto nel presepe e avvolto in poveri pannicelli. O mirabile umiltà e povertà che dà stupore!” (Lettera IV, 9-20)

... (continua)
lunedì, agosto 10, 2009

Chiara e la dottrina sociale della Chiesa


di Monica Cardarelli
Il lavoro (1° parte)

La cosa che più mi colpisce nella conoscenza di Chiara è come sia riuscita a trasformare tutto ciò che viveva dandogli un senso opposto a quello che gli attribuisce il mondo: il senso cristiano della vita. Ecco, dunque, che prima della santità di Chiara, c’è una donna, che piange quando prega, che vorrebbe partire e lasciare il monastero per raggiungere i frati che in Marocco vengono martirizzati; una donna che ha sofferto per anni e che pur a letto ammalata, ha avuto l’umiltà di farsi accudire dalle Sorelle e di continuare a lavorare. Sì, perché di paradossi nella vita di Chiara sembra ce ne siano stati molti. Uno fra questi è il lavoro. La concezione del lavoro per Chiara era letteralmente anti-economica.

Infatti, sia per Francesco che per Chiara il lavoro riveste un’importanza notevole nelle giornate. Ma questo non solo per allontanare l’ozio, ‘nemico dell’anima’: “Le sorelle alle quali il Signore ha dato la grazia di lavorare, dopo l’ora di terza lavorino con fedeltà e devozione e di un lavoro che sia pertinente all’onestà e alla comune utilità, cosicché, escluso l’ozio, nemico dell’anima, non estinguano lo spirito di orazione e di devozione, al quale le altre cose temporali debbono servire.” (Regola di S. Chiara, cap. VII 1-2) Proseguendo più avanti nella Regola, Chiara specifica: “E l’abbadessa o la sua vicaria sia tenuta ad assegnare in capitolo, davanti a tutte, il lavoro che ciascuna dovrà svolgere con le proprie mani.”

La cosa importante qui è che Chiara, come Francesco dà l’esempio lavorando ella stessa per trasmettere anche alle Sorelle che verranno dopo di lei l’importanza del lavoro, ma oltre a ciò che Francesco aveva scritto nella sua Regola specifica che sarà un lavoro manuale, un lavoro fatto con le proprie mani quello che caratterizzerà la sua nascente forma monastica. Si può pensare, e le testimonianze in questo senso sono numerose sia dagli Atti del Processo di santificazione sia nella Bolla di Canonizzazione, che si trattasse di lavori di filatura del lino e di panni di seta. Infatti, era uso per le giovani dell’epoca, di apprendere sin dall’infanzia a lavorare la lana e a tessere. Oltre a questo tipo di lavoro Chiara e le altre Sorelle si dedicavano al lavoro della terra che dava loro sostentamento.

L’aspetto importante, però, è che sia i prodotti tessuti sia i prodotti dell’orto che uscivano dal monastero, non erano venduti e non servivano alle Sorelle per avere un controvalore, ma erano semplicemente dei regali, dei doni. In alcuni casi, i lavori di tessuti che venivano venduti alle chiese e il ricavato veniva dato ai poveri. In questo modo, il frutto del proprio lavoro era donato ad altri e non serviva al proprio sostentamento. La comunità di Sorelle si sosteneva solo con le elemosine e con i doni che le venivano fatti. Tutto ciò può sembrare un controsenso, lavorare per regalare ad altri e vivere non del proprio lavoro ma delle elemosine. Perciò, in questo modo la comunità viveva in costante dipendenza dall’esterno, affidandosi continuamente alla Provvidenza.

“Io, Chiara, serva di Cristo, pianticella del santo padre nostro Francesco, sorella e madre vostra e delle altre Sorelle Povere, benché indegna, prego il Signore nostro Gesù Cristo, per la sua misericordia e per l’intercessione della sua santissima Madre Maria, del beato arcangelo Michele e di tutti i santi Angeli di Dio, (del beato padre nostro Francesco) e di tutti i santi e le sante di Dio, perché lo stesso Padre celeste vi doni e vi confermi questa santissima benedizione in cielo e in terra: in terra, moltiplicandovi, con la sua grazia e le sue virtù, fra i suoi servi e le sue serve nella sua Chiesa militante; in cielo, esaltandovi e glorificandovi nella sua Chiesa trionfante fra i suoi santi e sante.

Vi benedico in vita mia e dopo la mia morte, come posso e più di quanto posso, con tutte le benedizioni, con le quali lo stesso Padre delle misericordie benedisse e benedirà in cielo e in terra i suoi figli e le sue figlie spirituali, e con le quali ciascun padre e madre spirituale benedisse e benedirà i suoi figli e le sue figlie spirituali. Amen.”
(Benedizione di S. Chiara)

2° parte: La povertà

... (continua)
giovedì, agosto 06, 2009

Santa Chiara: la Regola di vita

In questo secondo articolo scritto da Monica Cardarelli nei giorni che precedono la celebrazione di Santa Chiara scopriamo la Regola che la Santa lasciò a coloro che scelsero di seguirla.

di Monica Cardarelli

Chiara è la prima donna nella storia della Chiesa ad aver scritto una Regola per le donne. Leggendo la Regola scritta da Chiara, che definisce giuridicamente la vita monastica a San Damiano, la cosa che più impressiona è la nuova concezione di clausura e di silenzio. Infatti, mentre nella Regola del Cardinal Ugolino, applicata a tutti gli ordini monastici femminili fino ad allora, la clausura è una scelta totale e definitiva che non prevede eccezioni di alcun tipo e soprattutto è strettamente legata alla verginità, per Chiara la clausura non è un valore in sé e non si lega alla verginità. Nella Regola di Chiara infatti, pur mantenendo le condizioni in cui sono prescritte le norme della chiusura del monastero, non si concepisce la clausura perpetua infatti: “non è più lecito uscire fuori dal monastero, senza un utile, ragionevole, manifesto e approvato motivo.” (Regola di S. Chiara, 13-14)
Perciò, secondo Chiara ci può essere, oltre alla fondazione di un altro monastero, un utile, ragionevole e manifesto motivo per uscire. Inoltre, come si legge dal suo Testamento, quello che più interessa Chiara è l’onestà dello stile di vita della clausura e la povertà “Ammonisco ed esorto nel Signore Gesù Cristo tutte le mie sorelle, presenti e future, che si studino sempre di imitare la via della santa semplicità, dell’umiltà e della povertà ed anche l’onestà di quella santa vita, che vi fu insegnata dal beato padre nostro Francesco fin dal principio della nostra conversione a Cristo.” (Testamento di S. Chiara)
Per quanto riguarda il silenzio, invece, mentre la Regola del Cardinal Ugolino imponeva il silenzio totale, il duplice divieto di parlare e ascoltare, per Chiara il silenzio assume un valore completamente diverso: “Le sorelle osservino il silenzio dall’ora di compieta fino a terza, eccettuate le sorelle che prestano servizio fuori del monastero. Osservino ancora silenzio continuo in chiesa, in dormitorio e in refettorio soltanto quando mangiano. Si eccettua l’infermeria, dove, per sollievo e servizio delle ammalate, sarà permesso alle sorelle di parlare con moderazione. Possano, comunque, sempre e ovunque, comunicare quanto è necessario, ma con brevità e sottovoce.” (Regola di S. Chiara 1-4).
Appare evidente che il silenzio assoluto per Chiara è previsto solo nel refettorio, nel dormitorio e in chiesa. Non solo, ma nella Regola di Chiara decade il divieto di vedere e di essere viste. Infatti, nonostante le grate e il panno dietro ad esse: “A detta grata sia posto un panno che non sia tolto se non quando si predica la divina parola o alcuna parli a qualcuno”. (Regola di S. Chiara, 10)
Al di là di tutte le differenze che si possono trovare tra la Regola scritta da un uomo, il Cardinal Ugolino, e la Regola scritta da Chiara, ciò che interessa è che dallo stile di vita vissuto e proposto da Chiara, emerge come la vita religiosa possa essere non una scelta di reclusione e di mortificazione di sé ma piuttosto una scelta di pienezza di vita. Una vita vissuta appieno, quella di Chiara, che propone la clausura come apertura, il silenzio come ascolto e dialogo.
San Damiano è stata sognata da Francesco e Chiara come una comunità aperta. Così è stato e così è nelle comunità di Clarisse. Dalla clausura Chiara si è aperta al mondo. Dal silenzio, è riuscita a giungere fino ad Agnese di Praga. Attualmente ci sono comunità di Clarisse in tutto il mondo, anche in Nigeria.
Chiara, nonostante la scelta di vita monastica, è riuscita a trovare un modo di essere feconda nell’amore e a lasciare qualcosa di sé.
La scelta di Chiara è stata una scelta di amore nei confronti di Dio e dei fratelli. L’attenzione e l’amore per le Sorelle è stato centrale nella vita di Chiara. Ma anche nei confronti della gente di Assisi o dei popoli più lontani, in ogni caso, ciò che interessava Chiara era la persona. Le relazioni umane profonde.
“Cosa potrei ancora dirti? È meglio che la parola umana rinunci qui ad esprimerti il mio affetto per te; solo l’anima, nel suo linguaggio silenzioso, riuscirebbe a fartelo sentire. E poiché, o figlia benedetta, la mia lingua è del tutto impotente ad esprimerti meglio l’amore che ti porto; queste poche cose che ti ho scritto in modo così imperfetto, quasi dimezzando il pensiero, sono tutto quanto ho potuto dirti. Ti prego, però, che tu voglia ugualmente accogliere queste mie parole con benevolenza e devozione, ascoltando in esse soprattutto l’affetto materno di cui sono ripiena, in ardore di carità, verso di te e delle tue figlie ogni giorno.” (Lettera IV ad Agnese di Praga)


... (continua)


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